Periodico registrato presso il Tribunale di Palermo al n.6 del 04 aprile 2012

Anno XII - Num. 57 - 09 dicembre 2024

Anno IV - Num. 21 - 02 marzo 2016 Politica e società

Presentazione a Palermo “I mille morti di Palermo. Uomini, denaro e vittime nella guerra di mafia che ha cambiato l’Italia” di Antonio Calabrò

TRINACRIANEWS.EU HA INTERVISTATO IL MGISTRATO GIUSEPPE DI LELLO, IL GIORNALISTA AUTORE DEL LIBRO ANTONIO CALABRO’ E IL DIRETTORE LIBRERIA MODUS VIVENDI FABRIZIO PIAZZA

di Maria Pia Iovino

calabrò URL IMMAGINE SOCIAL“La Sicilia è difficile. Lacera persone e sentimenti e invade chi, per nascita o per scelta, si lega a lei. La Sicilia è difficile. La sua arretratezza sociale ed economica è una lunga distanza geografica e mentale che la spinge lontano dall’Europa. La Sicilia è crudele. Le atrocità della mafia sono un marchio d’orrore che tutti i siciliani si portano appresso come il numero impresso sulla carne degli ebrei dei lager. Non si può cancellare. La Sicilia è bellissima e dura col suo sole titanico e tirannico, la sua luce violenta, il suo mare che dipinge e colora l’aria e la rinfresca. Bellissima e morbida nelle sue lente sere odorose, ridondanti di brezze lievi e vestiti leggeri e di chiacchiere indolenti, di luci lungo le coste, di cibi sensuali. La Sicilia è scomoda, ma viverla è possibile con orgoglio antico e altero …]”. Sono le note di Leonardo Sciascia con cui Fabrizio Piazza, direttore della libreria Modus Vivendi di Palermo ha voluto aprire la presentazione del libro del giornalista e saggista, oggi Direttore della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò:I mille morti di Palermo. Uomini, denaro e vittime nella guerra di mafia che ha cambiato l’Italia”.

L’evento, vivamente partecipato anche da numerosi giornalisti e magistrati, testimonia la volontà dell’Autore del volume di volere narrare ai giovani di Palermo e non solo, le sofferenze, i patimenti, gli anni di passione e di piombo riservati a Palermo dalla Mafia, negli anni del Maxiprocesso. Trent’anni fa (il 10 febbraio 1986) infatti, iniziava ilprocesso penale di primo gradonell’Aula Bunker del carcere Ucciardone, per crimini posti in essere da Cosa Nostra. Un maxiprocesso dei grandi numeri di morti ammazzati, scomparsi per la lupara bianca, grandi numeri per il numero degli imputati (475), per le sentenze emesse, con 19 ergastoli e penedetentive per un totale di 2665 anni di reclusione; la frenesia di folte schiere di operatori stampa di tutto il mondo che hanno raccontato la ferocia di un fenomeno, quello mafioso, che a dispetto delle ferite mortali inferte dagli autori e gregari (Liggio, Calò, Greco, Riina, Salvo, nonché da certi politici dalle tinte fosche (Ciancimino, Lima) ha saputo riscattarsi grazie alla schiena dritta di uomini dello Stato. Protagonista del riscatto della coscienza civile proprio lo Stato, che attraverso fedeli vessilliferi del buon Governo, ha saputo difenderla, sino a sacrificare la propria vita. Tra questi generosi martiri dello “Stato giusto” i magistrati e le rispettive scorte di Rocco Chinnici, Gaetano Costa (lui rifiutò la scorta, benché assegnata), Giangiacomo Ciaccio Montalto, Cesare Terranova, Rosario Livatino, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, poliziotti (Boris  Giuliano, Ninni Cassarà, carabinieri, tra cui, Lenin Mancuso, Mario D’Aleo, politici (Pier Santi Mattarella, Pio La Torre, Michele Reina), giornalisti come Mario Francese, Beppe Alfano, ed altri nomi eccellenti anche tra imprenditori che non si piegarono alla paura in nome di una giustizia giusta ed efficace. L’Autore, nella speranza di lanciare un ponte di continuità alle coscienze delle nuove generazioni, scrive e descrive la storia, il vivere quotidiano, i suoi mille morti per mano d’uomo nella guerra di mafia, non solo interna, ma estesa al corpo sano dello Stato e della sana Politica degli anni’80 – ‘90.

Ospite d’eccezione e relatore il Dott. Giuseppe di Lello, politico e magistrato – giudice istruttore del Pool Antimafia, ideato da Rocco Chinnici, capeggiato da Antonino Caponnetto che, insieme  a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta, istruirono numerosi processi antimafia fino ai primi anni ’90.

Nel suo intervento, Giuseppe Di Lello, tra un estratto del libro di Antonio Calabrò e la sua esperienza diretta, ha riportato alcuni eventi salienti di quella stagione tragica per Palermo e per la Sicilia, che molti forse, hanno dimenticato, anzi, molti ragazzi non hanno mai vissuto: “Palermo, in quella lunga stagione era dominata dai morti. Antonio ne conta un migliaio ed è vero” – ha rilevato Di Lello – “Il migliaio dei morti era più del doppio di quanti, in quello stesso periodo, stava facendo il terrorismo rosso e nero, con le stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia. A Palermo, specialmente nel triangolo Villabate, Palermo  e Casteldaccia c’erano centinaia di morti all’anno. Nel periodo compreso tra l’82 e l’83 c’erano stati circa 350 morti, divisi tra quelli scomparsi e quelli ammazzati in strada, con una differenza, anche numerica rispetto al terrorismo, non indifferente. Però, il terrorismo assorbiva tutta l’attenzione del Paese e i morti siciliani sembravano un fatto residuale, regionale, confinato in un ambito ristretto”. Di Lello ha voluto ricordare brevemente anche i morti ammazzati, oltre quelli sopra citati, anche i poliziotti e i carabinieri, Zucchetto, Montana, Basile, Trapassi (uomo di tutela di Chinnici), i giornalisti (Mauro De Mauro), militanti (Peppino Impastato), imprenditori, tra cui Libero Grassi. “Questa mattanza come ha osservato Di Lello – avveniva all’interno di una carneficina senza precedenti, il migliaio di morti appunto”.

A proposito di Calabrò, Di Lello lo ricorda come cronista de l’Ora che, in quel momento era l’unico quotidiano, in Italia, che affrontava questa questione in maniera molto chiara“Ricordo il Giornale di Sicilia parlava vagamente di qualcosa che c’era” – ha rilevato Di Lello – “ma, l’Ora era l’unico giornale che faceva nomi e cognomi, collegava questi omicidi ai rapporti incestuosi con la politica e l’imprenditoria”. “Nessuno vedeva. La grande stampa era così attenta a  fare le pulci ai giudici e non ai mafiosi. Il Giornale di Montanelli, l’Avanti di Craxi, erano  più schierati contro i magistrati che contro i mafiosi. Di Lello, dopo l’epilogo di morti ammazzati in quegli anni, il crescendo di attenzione mediatica, lo scuotimento delle coscienze, di equilibri e di stravolgimenti giudiziari, ha rilevato: “Quel processo ebbe il fine di fare condannare i mafiosi, in maniera definitiva. Qualcosa che non si era vista prima. Dopo le stragi del ’92-’93 c’è una nuova coscienza civile. Però, la mafia si è modificata con Buscetta e Contorno. Da una pratica dell’omertà si è passati ad una pratica della collaborazione”.

Nel suo intervento, Antonio Calabrò, spiegando al pubblico le ragioni che lo hanno indotto a scrivere questo libro ha dichiarato: “ I libri,  probabilmente si scrivono, in parte per tramandare memoria e in parte, e questa una storia assolutamente personale, per chiudere i conti con se stessi; cioè, per provare a tirare fuori il senso, non solo di quello che è successo ad una comunità come Palermo, con i mille morti ma, anche per tentare di trarre fuori una sorta di indicazione di senso; per capire cosa era quella stagione in cui siamo passati tutti e che cosa rimane di quella stagione. Mi viene in mente una definizione che Gesualdo Bufalino del giornale La Sicilia dà: la luce e il lutto.” Però, ridurre la Sicilia in questa immagine estremizzata è non rendere giustizia a noi stessi e tutto quello che abbiamo attraversato e anche a quel pezzo di contemporaneità di cui parlava Di Lello. Perché tra la luce e il lutto c’è una infinita gradazione delle ombre.

Di effetto l’accostamento che Calabrò ha fatto della Sicilia ad una tela di Jackson Pollock: quest’isola somiglia a un grande quadro di Pollock. E l’opera più bella di Pollock sono le gradazioni dei grigi e gli sprazzi di rosso e di giallo che stanno dentro il dipinto. Quest’isola è un grande quadro di Pollock: drammatica e terribile, ma anche, non rassegnata. Mille morti sono l’arby’s. Ma, dentro la morte c’è stata e c’è la parte di coscienza civile, vigile, minoritaria ma, che ha consentito a Palermo di non essere sconfitta e arresa.”

Volere ricordare ancora il maxi-processo per Calabrò ha rappresentato:probabilmente, ancora la migliore occasione nella storia giudiziaria italiana in cui, con le armi della giurisdizione e con il rispetto di tutte le regole, la mafia è stata vinta” – ha aggiunto CalabròE quando parlo di maxi-processo parlo di tutto il lavoro di istruzione fatto dal Pool capeggiato da Antonino Caponnetto, pensato da Rocco Chinnici  e composto da Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, Quel processo è importante per come si svolge, passo passo. Si svolge tanto bene che la Cassazione lo conferma. Una Cassazione dominata da figure che ritenevano che fosse rispettato al massimo il formalismo giuridico. La Cassazione conferma l’impianto della sentenza di primo grado. Ristabilisce la verità del teorema Buscetta di arresto e rimanda di nuovo in Corte d’Appello per la continuazione e la sentenza definitiva. Poi, c’è uno sfondo odioso: viene ammazzato un P.M.: Scopelliti, per evitare che arrivi a fare il P.M.”Continuando, Calabrò ha audacemente asserito:Si sconfigge la mafia perché viene applicata bene la legge. Ed è una storia di questo Paese che va molto oltre i confini di Palermo. Si potranno ricordare altri processi in cui le cose non sono andate proprio così. Così è del processo sul sequestro Moro, per avere un riscontro di come non si fa un processo.

Concludendo, l’autore ha soggiunto: “io spero che questo libro finisca in mano alle nuove generazioni perché, per molti, la mafia si è addensata nelle due morti più clamorose: Falcone e Borsellino. C’è tutto un retro, tutti gli altri morti a cui va reso omaggio, la memoria e le responsabilità. Io ci ho provato”.

TRINACRIANEWS.EU HA INTERVISTATO IL MGISTRATO GIUSEPPE DI LELLO, IL GIORNALISTA AUTORE DEL LIBRO ANTONIO CALABRO’ E IL DIRETTORE LIBRERIA MODUS VIVENDI FABRIZIO PIAZZA

INTERVISTE

GIUSEPPE DI LELLO

D. In qualità di protagonista e giudice istruttore del maxi-processo, ritiene che oggi ci siano i presupposti perché gli operatori della giustizia attuali possano fedelmente garantire il diritto, come avvenne negli anni ‘80-‘90, portare avanti  condanne, ergastoli, oppure le infiltrazioni pervadono anche quel mondo che dovrebbe conservarsi netto?

R. No. Non c’è dubbio che la Magistratura di tutta Italia, dal maxi processo in poi, ha preso come modello di indagine e di impegno anche quello di Giovanni Falcone e da allora questo impegno si è diffuso in tutta Italia e a Palermo ha continuato. Come vediamo, tutto sommato, non sono diminuiti i pentiti, non sono diminuiti i processi di mafia, con alti e bassi. Ma, credo che, la Magistratura e le Forze di Polizia reggono molto questo impegno antimafia.

D. Lei, che è sopravvissuto alle stragi degli anni ’90 cosa realizza e quali ricordi conserva di quel periodo di mattanza?

R. Io ritengo che di quel periodo rimane un esempio incancellabile di un impegno giudiziario che non può essere sottovalutato, né può essere minimizzato. Oggi, quell’impegno antimafia ha favorito una legislazione che è stata adottata da modello di contrasto alla mafia in tutto il mondo. L’ha preso anche l’ONU. Sicuramente, la magistratura di Palermo ha fatto da battistrada in tutto il mondo per contrastare il crimine organizzato.

D. Per promuovere un risveglio delle coscienze civili cosa propone ai singoli cittadini e alla società?

R. Bisogna insistere e resistere perché come ha detto anche Salvatore Lupo, lo Stato ha vinto, la mafia non ha vinto ancora. Bisogna insistere e fare in modo che lo Stato continui a vincere.

ANTONIO CALABRÒ

D.  A distanza di trent’anni dal maxi-processo cos’è cambiato nello Stato?

R. Partendo dal maxi-processo e dalle sentenze, la mafia viene messa in ginocchio e condannata. I capi di Cosa Nostra sono all’ergastolo; altri lo sarebbero finiti dopo, sulla base di quelle sentenze: Riina e Provenzano. Si dimostra come l’applicazione delle norme, il processo ben fatto, la tutela dei diritti e dei doveri porti ad un risultato fondamentale, cioè i boss di cosa nostra vengono estromessi dai gangli di raccordo tra la mafia, la politica, l’economia e tenuti in galera. Passaggio di civiltà giuridica e di responsabilità politica fondamentale. E’ cambiata la consapevolezza che gli strumenti giudiziari possono essere usati e vanno affinati, perfezionati, sistemati e resi contemporanei al rapporto con la realtà. Semplificando, dopo l’uccisione del Prefetto Dalla Chiesa viene approvata la legge Rognoni-La Torre. Poi, la legge viene applicata; si constatano alcuni parziali limiti di quella legge. Poi, la legge viene riformata in presenza di  un codice antimafia molto impegnativo. Lo Stato, nel corso di questi anni sanguinosi, impara che con le leggi ben applicate la mafia può essere sconfitta.

D. La stampa (una parte si essa) si è rivelata in passato un po’ faziosa, addirittura minimalista. Ed oggi?

R. Non credo che la stampa sia faziosa. Penso che, ci fosse stata nel tempo, una considerazione non attenta e non consapevole di tutte le relazioni tra Cosa Nostra, ambienti della politica e ambienti dell’economia. Questa sottovalutazione da parecchi organi di stampa poi, nel tempo è per fortuna, diminuita. Vale la pena ricordare la prima grande inchiesta del giornale “l’Ora” sulla mafia del 1958, quando nessuno se ne occupava e il titolo principale era “la Mafia dà pane e morte”. Reddito dei traffici criminali, ma anche sanzioni terribili e poi altri giornali, nel corso del tempo, hanno tenuto alto il livello e l’impegno antimafia. C’è ancora da fare crescere nell’opinione pubblica la sensazione della pericolosità ancora attuale, delle organizzazioni criminali.

D. La mafia oggi è molto compenetrata nell’imprenditoria e nella politica. Infatti oggi la mafia non uccide ma, è incestuosa con le Istituzioni. Cosa ci può dire in merito?

R. Io credo che la Mafia ha vissuto nel corso dei decenni, grazie al rapporto stretto con ambienti della politica e con ambienti dell’economia: sangue, potere e affari. Questa dimensione ha consentito alle cosche di Cosa nostra di avere una presenza in Sicilia, poi in altre realtà, abbastanza consistente. Quel legame oggi, è un legame che, per quanto riguarda la Sicilia si è allentato. Non c’è più la politica delle compromissioni strette tra mafia e pezzi del governo locale, delle Istituzioni. C’è semmai, un allarme da tenere sempre presente: la pervasività di forme di criminalità organizzata dentro circuiti degli affari, dell’economia e delle Amministrazioni locali anche in altre realtà del Paese: in Lombardia, in Emilia, in Liguria e in altre ancora. Io credo che oggi lo sguardo deve essere concentrato su altre realtà, su quel tipo di legame, molto ancorati a territori ed affari. La mafia siciliana, Cosa Nostra ha un potere minore rispetto al passato. Altre forme di organizzazioni criminali sono particolarmente allarmanti. Non a caso, una grande associazione imprenditoriale come Assolombarda Milano considera l’impegno contro la criminalità organizzata un elemento fondamentale della sua attività di Istituzione in rappresentanza degli imprenditori. La mafia nelle sue varie forme, Camorra, Ndrangheta, Cosa Nostra, sono il contrario delle buone imprese e del mercato.

D. Il suo libro, nel quale racconta trent’anni di stragi, di spargimento di sangue, di vittime, di denaro. Cosa le ha generato la ripercussione a ritroso del maxi-processo, degli anni di piombo, dei mille morti?

R. C’ero a Palermo, lavoravo al giornale “l’Ora”, ero Capo Redattore e, di molte di quelle storie sono stato testimone diretto, oltre che organizzatore della cronaca. Io credo che riguardare il proprio passato e il passato di una grande comunità come la Sicilia, sia un atto di memoria indispensabile da lasciare alle nuove generazioni.

D. Nel suo lavoro, proprio perché pericoloso, ha ricevuto avvisaglie, minacce?

R. Le minacce in quegli anni riguardavano un sacco di persone e la responsabilità di chi aveva un ruolo, un incarico, un lavoro da fare era di andare avanti, nonostante tutto. Il resto, un dettaglio.

D. Vede oggi, una profonda insicurezza, con vulnus in ogni dove (Istituzioni, a volte la magistratura)? Che messaggio vuole trasmettere?

I messaggi possono essere due: primo, ricordando il maxi- processo, con lo Stato che si impegna in tutte le sue articolazioni, inquirenti, magistratura, opinione pubblica, riesce a prevalere sull’illegalità. Il secondo è, che le attività di criminalità organizzata sono sempre vive e tocca alle nuove generazioni tenere alta la guardia, di avere il senso di responsabilità, di affermare culture di legalità che possano contrastare le presenze, ancora attuali di mafia, camorra e ‘ndrangheta.

D. Il suo libro ha ricevuto numerose recensioni e realizzato diverse tappe. I prossimi programmi per questo volume, lungo lo stivale?

R. Presenteremo il libro a Milano, Roma, Bologna, Firenze, Bolzano, Napoli. Insomma, andremo in giro per provare a dialogare soprattutto, con le nuove generazioni sul pezzo della memoria che vale la pena custodire e sulle responsabilità da assumere.

FABRIZIO PIAZZA

D. Ospitare Antonio Calabrò, Giuseppe Di Lello, cosa rappresenta per la Libreria Modus Vivendi?

R. Sicuramente un momento importante perché la libreria è da sempre impegnata sul fronte della legalità e dell’antimafia. Seguiamo Antonio Calabrò fin dai suoi esordi, dai suoi primi libri e credo che questo sia un libro “simbolico” per noi, perché rappresenta per noi un impegno nostro e nei confronti della città. Quindi, ci fa particolarmente piacere avere ospitato questo “autore”.

D. Numerose le copie vendute. Ciò cosa testimonia?

R. Questo è relativo perché l’importante è quando si riempie la libreria, quando l’evento è partecipato, quando gli interventi sono qualificati, come è stato oggi, tanti giornalisti, tanti magistrati, addetti ai lavori, quindi, una giornata storicamente fantastica, un successo.

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