Palermo – Aula Magna Palazzo di Giustizia di Palermo. Presentato il volume “La violenza sulle donne nel quadro della violazione dei diritti umani e della protezione del testimone vulnerabile” di Mirella Agliastro, Magistrato della Procura Generale presso la Corte di Appello di Palermo, già giudice a latere della Corte di Assise, giudice dell’udienza preliminare ed Ispettore Generale del Ministero. Ha trattato complessi processi riguardanti, tra l’altro, l’uccisione del sacerdote don Pino Puglisi, del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo, sciolto nell’acido, nonché altri innumerevoli ed efferati omicidi. La presentazione del libro è avvenuta in seno ad un evento formativo organizzato dalla sede di Palermo dell’Associazione CamMiNo, (Camera Nazionale Avvocati per la Famiglia e i Minorenni), presieduta dall’Avv. familiarista Alessandra Sinatra. Quest’ultima, in qualità di Presidente della suddetta associazione, dopo la scoperta della magistrale monografia, ha ritenuto doveroso promuoverne la sua diffusione, estendendola non solo agli operatori del settore, ma anche ai semplici cittadini. Da qui l’idea di organizzare e realizzare l’evento.
Il volume è di attuale drammaticità. Contiene, oltre una chiave di lettura dei vari diritti messi in gioco dalla violenza dell’offensore sulla vittima, anche un ausilio per gli addetti ai lavori (tra avvocati, magistrati, psicologi, operatori dei centri sociali, polizia giudiziaria, operatori del pronto soccorso e mondo del volontariato) impegnati nella prevenzione, protezione del soggetto abusato. Nel volume si affronta anche l’inquadramento della violenza sulle donne in ordine agli aspetti della violenza psichica e del fenomeno del femminicidio in generale, con il richiamo alla più recente giurisprudenza della Suprema Corte. L’opera offre inoltre, una approfondita disamina della Convenzione di Istanbul, della Direttiva Europea n. 29/2012 e soprattutto del decreto legge n. 93/13 convertito nella legge n. 119/13, in tema di violenza di genere.
Notevole lo spessore dei relatori intervenuti: Roberto Scarpinato, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo, Bernardo Petralia, Procuratore Aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, Roberto Conti, Consigliere della Corte di Cassazione, Daniela Troja, Consigliere della Corte di Appello di Palermo, Alessia Sinatra, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, Renato Grillo, Consigliere della Corte di Cassazione, Giuseppe Di Chiara, Ordinario di diritto processuale penale Università di Palermo, Giuseppe di Stefano, Vice-Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, Concetta Giallombardo, Socio CamMiNo Palermo. Roberta Pezzano, Socio CamMiNo Palermo, Mirella Agliastro, autrice, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, Gioacchino Onorati, editore del libro. Ha moderato Bruno Fasciana, Giudice Seconda Sezione Penale del Tribunale di Palermo.
Roberto Scarpinato rilevando la faticosa affermazione e riconoscimento del ruolo della donna nel tempo, nonché la attuale condizione di disparità di genere a cui soggiace ancora oggi in contesti trasversali al suo ruolo, ha fatto un salto a ritroso nella storia della Chiesa cattolica italiana. In particolare, Scarpinato ha individuato in essa una atavica fonte di trasmissione capillare del pensiero maschilista in Italia e di riflesso, di sudditanza della donna rispetto all’uomo – La cultura cattolica è stata per molti versi, il cavallo di troia che per molti secoli ha veicolato, nella cultura italiana, una profonda ed occulta svalorizzazione della figura del femminile, il cui ruolo è stato relegato a quello di madre, di moglie, di sorella, di una identità lunare che vive cioè, di luce riflessa rispetto a quella maschile, nei cui confronti è stato ridotta al ruolo servente. Basti considerare che, le donne sono state sempre escluse da ruoli di governo della chiesa cattolica. Tutto il potere ecclesiastico è dei maschi (papi, cardinali, vescovi, diaconi, preti, parroci). Il femminile è escluso anche nell’esercizio dell’operatività spirituale per la gestione del sacro. Le donne non possono amministrare i sacramenti, non possono celebrare le messe, non possono confessare – ha rilevato il P.G. Scarpinato – L’impronta maschilista della formazione culturale del credo cattolico traspare dai testi che ancora oggi si studiano nei seminari. Tertulliano, uno dei padri della chiesa cattolica, scrive: “Tu donna sei la forza del diavolo. Tu donna hai circuito quello che il diavolo non osava attaccare di fronte. E’ a causa tua, se il figlio di Dio è dovuto morire. Tu dovrai fuggire per sempre in gramaglie e ricoperta da cenci”; San Tommaso D’Aquino, uno dei padri fondatori del pensiero cattolico scrive: “La donna è un uomo mancato” – “Non è la madre che genera colui che viene chiamato suo figlio. Lei non è che la nutrice del seme deposto nel suo ventre che genera il padre”. S. Ambrogio, altro grande padre fondatore della Chiesa che si studia nei seminari: “Adamo è stato condotto al peccato da Eva, non Eva da Adamo. E’ giusto quindi, che la donna accolga come padrone chi ha indotto a peccare”. Un altro grande teologo del 1562, ancora oggi studiato nei seminari: “Voi mogli dovete assoggettarvi ai vostri mariti perché il marito è il capo della donna, come Cristo è il Capo della Chiesa”. E non dobbiamo dimenticare che questi teologi presiedono la formazione culturale del credo ecclesiastico che poi, diffonde e veicola sul territorio questa visione della donna. E non dobbiamo dimenticare ancora che, – ha aggiunto Scarpinato – questa cultura arriva sino ai nostri giorni. Nel 1724 a Piazza Marina venivano arse vive, sul rogo, delle donne accusate di stregoneria. Questa visione negativa della donna, riscattata solo dalla maternità e dalla conformazione al modello di sposa e di madre che si sacrifica e si annulla percorre, sottotraccia, tutta la storia italiana e dà il senso del grave ritardo italiano nel concedere il diritto di voto alle donne, della vergogna della legislazione penale sessista, inventariata dall’autrice del libro, a partire dal “delitto d’onore”, come altre norme che sono l’attestazione della pre-modernità culturale del diritto penale. Nessuno meraviglia dunque se l’Italia si attesta ai primi posti per la violenza femminile, per la violenza nei confronti delle donne in Europa. I pozzi della cultura di massa purtroppo, sono stati contaminati da tanti secoli. Evidenzio un dato riportato dall’Autrice che mi lascia il sospetto che, nonostante gli innegabili progressi culturali compiuti ci sia ancora molta strada da fare all’interno della magistratura, se è vero come è vero che Mirella Agliastro, trattando il capitolo dei risarcimenti evidenzia che, secondo dati statistici, la media delle liquidazioni annuali in favore di donne vittime di violenza sia di circa 1.000 euro per ciascun anno di violenza subìta.
Giuseppe Di Stefano, riallacciandosi alle indicazioni del procuratore generale ha fornito dei dati nazionali, europei e mondiali sulla violenza sulle donne. Nel 2012 in Italia, 157 femminicidi; nel 2013, 179 (75 al nord, 44 al centro, 60 al sud) con un aumento del 14%. Di questi femminicidi, 7 su 10 si consumano all’interno del contesto familiare. Il fenomeno del femminicidio, che assegnava la maglia nera al nord, recentemente, ha subìto un’inversione di tendenza con un aumento al sud del 27% (dati 2012-2013). Il dato sconvolgente è il numero di casi complessivi di violenza (fisica o sessuale) sulle donne in Italia, di oltre 1 milione nel 2013, declinato in 14 milioni di atti fisici di violenza. Dato non esclusivamente italiano. In Europa il 33% delle donne ha subìto violenze fisiche o sessuali. Discostandosi dall’orientamento del P.G. Scarpinato sulle origini storiche della violenza sulla donna in Italia, Di Stefano ha rilevato che le donne vittime di violenza sono il 27%, rispetto alla Francia e Inghilterra, 44%, Germania 35%, Svezia, 46%, Spagna, 22%. Nel Nord-America il 21%; nell’Africa Centrale, il 65%. Il senso della violenza, secondo Di Stefano è la sua prossimità pervasiva, un cancro che ancora non si riesce a debellare. Citando una relazione della criminologa statunitense Diana Russell, Di Stefano ha evidenziato l’essenza della violenza come “la libertà delle donne che entra il conflitto con la voglia di sottomissione da parte dell’uomo”.
Bruno Fasciana ha esposto un quadro esteso della violenza sulle donne intravedendo nella “violenza di genere” la soppressione dei valori che costituiscono l’identità di genere della donna, soppressione motivata dalla volontà di un istinto culturale di punire l’emancipazione della donna o il suo tentativo di emanciparsi. “Nella violenza di genere si possono leggere delle affinità con altre figure criminologiche, come la tortura. In questo caso il torturatore è mosso da un intento di sopraffazione e di supremazia nei confronti di un soggetto appartenente ad una cultura, società, genere, consorzio politico. Nella tortura la vittima non costituisce una identità particolare, ma è vittima nel momento in cui rappresenta un genere con tutti i suoi valori. La stessa valutazione si estende verso gli omosessuali, trattandosi di violenza di genere e connotandosi un pregiudizio di supremazia culturale da parte del soggetto agente che vuole annientare i valori dell’identità specifica della vittima”. Nell’ordinamento giuridico italiano la violenza di genere come il femminicidio, costituisce una categoria criminologica senza una precisa identità giuridica. Paradossalmente – ha concluso Fasciana – nella violenza sessuale non è ravvisabile un’offesa alla identità femminile, poiché nella violenza sessuale, l’agente è mosso da pulsioni, più che da un istinto di sopraffazione della donna.. Infine Fasciana parlando di stalking ha affermato che lo stalker è mosso più da risentimento di una voglia di reazione rispetto ad un abbandono, più che un’affermazione di supremazia.
Dino Petralia ha evidenziato le lacune del sistema giudiziario e dell’aspetto organizzativo rispetto al fenomeno trattato. Noi siamo un po’ indietro come protagonisti della giustizia in questo settore. Nel 2009 si percepì, soprattutto con la Convenzione di Istanbul e ancor prima, quando fu ratificata la Convenzione di Lanzarote, l’esigenza di andare a verificare che cosa le Autorità giudiziarie stessero facendo sotto il profilo organizzativo. Una condizione desolante degli Uffici giudiziari. Ci fu un grande grido di allarme nel 2009 che si sostanziò in una delibera con cui si poterono individuare i punti fondamentali di intervento: assoluta necessità di fondare il dibattimento con il lavoro della Procura per interventi personalizzati e orientati; trattazione prioritaria dei processi. Ma, la trattazione prioritaria ha un senso se è prioritaria all’interno della Procura. Si invita ad una collaborazione più attenta e più attiva tra magistrature requirente e magistratura giudicante, proprio per garantire le priorità nel corso dei processi. Occorre formare la magistratura onoraria, occorre formare la polizia giudiziaria – ha concluso Petralia – perché il contatto con la fascia debole non l’abbiamo né il magistrato del P.M. né il magistrato giudicante, ma ce l’ha la Polizia giudiziaria e allora, la delicatezza e la cura, anche sentimentale, attraverso cui si stabilisce questo criterio non può prescindere da una preparazione culturale e da una fisionomia culturale che ancora stenta a radicarsi.
Alessia Sinatra ha dato il suo imprinting alla centralità della vittima all’interno del circuito processuale (nella sua omnicomprensività). Da un tracciato delle numerose vittime conosciute la Sinatra ha scorto il profilo dell’autore di violenza ovunque, (marito, ex compagno, amico di famiglia, datore di lavoro, medico, educatore); un uomo con cui la donna dovrebbe avere un rapporto di affetto di condivisione, che invece sfocia in un reato consumato in contesti teoricamente “rassicuranti”, di protezione. Le violenze nei confronti delle donne o gli omicidi con movente sessuale o passionale spesso, sono anticipati da una serie di atti insistenti e ripetuti, attenzioni morbose, ossessive, dove il sospetto diventa paura, angoscia, tormento, una spirale perversa senza via di uscita. La Sinatra ha evidenziato profonde criticità del sistema. Così, l’incapacità di alcuni operatori di polizia giudiziaria, del sociale, sanitario, di guidare le donne nel percorso di uscita, l’incapacità di coordinare i loro interventi; il taglio dei fondi per i centri anti-violenza, per la promozione della rete e la multidisciplinarietà degli interventi; la presenza di organici vuoti, l’insufficienza delle risorse essenziali al corretto e tempestivo intervento; l’audizione della vittima in ambienti non idonei, che la vedono circondata dai familiari o dall’aggressore, minacciandola o avvertendola affinché cambi il tenore delle sue recenti dichiarazioni; l’ascolto della vittima, a sua volta, frettoloso, senza accoglienza, rassicurazioni da parte degli operatori giudiziari. Il giudice – ha chiosato la Sinatra – può essere competente in diritto ed equo nelle sue determinazioni, ma non rivolgere il suo sguardo verso la vittima. Di riflesso, non riuscendo a tollerare le difficoltà emotive della vittima, la colpisce verbalmente, mettendola nelle condizioni di non potere eseguire neppure la sua testimonianza. Accade pure che, essendo previste le modalità protette anche per le donne, con la modifica dell’art 498 c.p.p. non sempre il giudice del dibattimento o il GUP le dispone, così come, non sempre viene accolta la richiesta del Pubblico Ministero di assumere la testimonianza della vittima maggiorenne, nelle forme dell’incidente probatorio. In questi casi, forse è meglio tacere che denunciare. Se la denuncia è già difficile, lo è ancor di più, il rischio della ritrattazione. Allora è meglio ritirare la querela che sempre viene presentata nel momento della massima disperazione. Forse il legislatore dovrebbe dialogare con gli operatori del settore, conoscere le dinamiche, le difficoltà della prassi. Inoltre, il legislatore non dovrebbe dimenticare che i tempi della donna non coincidono sempre con quelli della giustizia. E’ dal contesto giudiziario che forse, andrebbe recuperato e definito il significato della relazione tra offensore e la presunta vittima, le complessità della narrazione di un’esperienza traumatica, la sofferenza, l’imbarazzo e tutti i sentimenti che accompagnano la vittima chiamata a tradurre in parola in suo dramma. La scena del crimine, da rinvenire nella relazione che intercorre tra la vittima e il suo autore,che porta la vittima a sperimentare quelle condizioni di sudditanza psichica non facile da raccontare in cui chiediamo sotto giuramento di raccontare, ma dobbiamo mettere nelle condizioni di raccontare il senso delle dinamiche esclusive a quel rapporto. Se all’operatore giudiziario servono le parole per assumere le sue determinazioni, nel contesto giudiziario, dobbiamo adoperarci perché il dolore trovi finalmente, le parole per esprimersi. Da qui l’importanza dell’interazione visiva con la vittima – ha concluso la Sinatra – Omettere di guardarla è un’occasione perduta, è privarci di cogliere l’essenza, l’autenticità della storia che andremo a giudicare, perché ascoltare e guardare la vittima significa esserci e noi dobbiamo esserci sempre. L’augurio alle tante vittime di violenza possano cominciare a vivere, riappropriandosi di se stesse, o forse, appropriarsi per la prima volta, educando i propri bambini nel rispetto di sé stessi, e degli altri, senza continuar a sopportare in silenzio, senza mai rinunciare alla propria dignità di persona.
Giuseppe Di Chiara – ha affrontato La tutela della vittima particolarmente vulnerabile ricorrendo triplice macrodirettrice delle tre P: Prevenzione (con orientamenti anche di ordine culturale), Protezione (strumenti di tutela della vittima nel processo e dal processo) e Prosecuzione, (meccanismi di repressione della condotta aggressiva, materializzata allo stato di tentativo o allo stato di consumazione. Individuando il cuore pulsante delle tre P nella protezione della vittima. Essenziale non trascurare la vittima, la sua sofferenza sperimentata con il proprio vissuto. La tessera più importante di questo mosaico é rappresentata dagli interventi immediati a tutela della vittima – ha evidenziato Di Chiara. Da una parte strumenti di protezione nel processo, all’interno egli itinerari processuali. In particolare, metodiche di audizione protetta della vittima che proteggono il soggetto ma, che nel contempo rendono efficiente l’accertamento processuale e tutelano una garanzia di contesto che è altrettanto importante e che non può essere sacrificata la garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa della persona accusata del reato. In particolare, il giusto processo non viene tutelato dalla garanzia di determinati pilastri, in termini di garanzia e di contesto: il contraddittorio, il diritto di difesa e la presunzione di innocenza, ma anche dalla protezione della vittima; sicché, un processo che tuteli per intero le garanzie della persona accusata dal reato ma, che trascuri o pretermetta la vittima è ingiusto, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Altri strumenti di protezione che si dipartono dal processo, ma che poi incidono fuori dal processo, come le misure cautelari personali a tutela della vittima.
Pezzano, ha rilevato che la violenza sessuale non si consuma solo a carico di donne adulte, ma anche di bambine. La bambina è quella che paga lo sconto maggiore, perché in prospettiva di recupero della qualità della vita, io credo che quella delle bambine sia assolutamente sacrificata. La donna adulta ha sovente, degli strumenti per reagire e fronteggiare le situazioni. La bambina abusata ha un passato, un presente ed un futuro da vittima. Ha delle coazioni nella condotta sessuale, degli istinti sessuali che si manifestano anzitempo, un cogito, una pulsione sessuale innaturale ed in quanto tale, un danno. Alla bambina assimilo naturalmente, la condizione del bambino. L’incidente probatorio, per le vittime minori è una grandissima risorsa, perché dà la possibilità al minore di uscire per sempre, dal circuito penale restando la cristallizzata la sua testimonianza. Sovente il processo all’imputato si ribalta e diventa il processo alla persona offesa. Ed è qui che il ruolo del difensore della persona offesa diventa importante. Le vittime non avranno quasi mai un risarcimento economico. Quindi, l’impegno del difensore della parte offesa deve tendere ad un suo risarcimento morale, sociale e di dignità. A proposito di gratuito patrocinio, la Pezzano ha rilevato la garanzia dello Stato a tutte le vittime di violenza sessuale, a prescindere dalle condizioni di reddito. Non altrettanto di consulenti, che vogliono essere pagati. Sollecitando una collaborazione tra magistratura requirente, giudicante e il difensore che assiste il minore, la Pezzano ha evidenziato la differenza tra vittima minore e maggiorenne. A proposito di quest’ultima, i casi riscontrati riguardano donne esponenti di una fascia culturale medio-alta, proprio perché verso il basso c’è una tendenza a chiudere, a non assegnare all’esterno la violenza subìta, sono familiarmente sostenute, quindi, sono in grado di fronteggiare il processo penale.
Concetta Giallombardo, trattando del risarcimento del danno conseguente ad atti di violenza sulla donna ha rimarcato la necessità affinché l’ordinamento giuridico si attivi, nel rispetto dei principi costituzionali, comunitari che affermano che, “lo Stato deve garantire l’attuazione delle misure destinate a tutelare i diritti delle vittime”. Finché ci saranno liquidazioni decisamente incongrue e finché non si porranno in essere gli istituti giuridici di intervento dello Stato per il materiale conseguimento delle somme per il risarcimento dei danni, si potrà affermare da un lato, che non si pongono in essere tutti gli strumenti essenziali per agire efficacemente, nel senso della prova; dall’altro che, lo Stato risulta inadempiente rispetto agli obblighi che scaturiscono dalle norme comunitarie. Mi riferisco alla Convezione di Istanbul, ormai ratificata da 14 Stati appartenenti al Consiglio d’Europa, entrata in vigore il 1° agosto 2014. La sottovalutazione dei danni, conseguenti all’atto di violenza contro una donna può essere percepita nella coscienza sociale, come una conferma della sottovalutazione del genere femminile e nella coscienza individuale della vittima, come un ulteriore affronto. Il diritto all’azione del risarcimento danno da un atto di violenza, nasce dalla violenza risarcibile, in virtù degli articoli 2043 e 2059 c.c. che impone di ritenere risarcibile il danno non patrimoniale, anche al di fuori delle ipotesi di reato, laddove vengano lesi i valori costituzionali. I comportamenti di aggressione, nei confronti della donna hanno una valenza oggettivamente e soggettivamente pluri-offensiva perché, aggredendo la persona donna, si aggrediscono e si colpiscono tutta una serie di interessi, ricollegati, non solo al soggetto in sé, ma anche ai suoi molteplici impegni, di carattere concreto, e di carattere relazionale. Il che fa lievitare il numero dei soggetti che possono proporre un’azione risarcitoria, jure proprio o jure ereditario. La donna che assistiamo è una persona. Chi la colpisce viola tutti i diritti in sé: Il diritto all’integrità psico-fisica, il diritto alla auto-determinazione, il diritto alla parità, il diritto ad avere una propria prosecuzione per il proprio lavoro.Ma, può anche essere una moglie, una madre, una figlia di genitori anziani che abbisognano di assistenza, una persona che lavora fuori dalla famiglia, ma può essere insieme tutte queste cose e dunque, dato e accertato il comportamento lesivo, si apre un ventaglio di istanze risarcitorie specificamente ricollegabili alla donna aggredita e ai molteplici ruoli da queste ricoperti. Rispetto a questa multiforme attività delle donne, il nostro Ordinamento sembra indifferente, perché produce dichiarazioni solenni però, si rende al tempo stesso latitante rispetto a tutta una serie di consapevolezze degli apporti economico-sociali derivanti dall’impegno della parte femminile della società. Lo Stato non dovrebbe mantenere quell’atteggiamento di ipocrisia che connota i suoi rapporti con la componente femminile della società. Nel momento in cui una donna viene colpita, almeno in quel momento, devono emergere, insieme a tutti i pregiudizi strettamente personali, anche quelli che si riflettono sui compiti che ogni giorno svolge e sulle relazioni personali delle quali è protagonista principale, anche nell’interesse della società. Tocca a noi avvocati portare alla luce, sia la dimensione sociale, sia questa realtà composita che ruota attorno alla figura femminile. Siccome alcune di queste conseguenze pregiudizievoli sfuggono ad una rappresentazione fenomenologica, la nostra deve essere anche un’operazione di svelamento, nel senso di iniziare a suggerire al giudice quel percorso logico, giuridico, che porti a motivare una riparazione pecuniaria, anche di quelle istanze che non possono essere suffragate da quelle prove canoniche. Questa l’unica strada per giungere ad una reale, completa rappresentazione che porti il giudice a determinare il risarcimento in maniera integrale, congrua, commisurata al caso concreto e socialmente adeguata
Roberto Conti si è espresso segnalando il ponderoso volume della collega Mirella Agliastro su un tema tragicamente di attualità. La lettura dell’indice dà il senso di una ricerca a tutto campo che, muovendo dalla individuazione dei diritti fondamentali in gioco, spazia dal versante sostanziale a quello processuale, diffondendosi sugli strumenti internazionali di recente ratificati nell’ordinamento interno. Le Convenzioni di Lanzarote del 25 ottobre 2007 del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali e di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell’11 maggio 2011 sono esaminate insieme alle norme che le hanno ratificate a attuate. Un’occasione importante per fermarsi a riflettere su questioni che toccano tutti noi, studiosi, giudici, avvocati e comuni cittadini.
Daniela Troja Riconducendosi ad un’espressione usata dall’autrice del libro ha riferito che, il momento più pericoloso per il violento è quello in cui viene a conoscenza delle accuse, ed è in questo segmento temporale che si estende il pericolo di inquinamento probatorio. Il pericolo vero della vittima è quello di essere suscettibile di avvicinamenti e di eventuali ritrattazioni. Ed è un pericolo concreto quello di inquinamento probatorio e per questo, le misure specifiche, sia quelle tradizionali custodiali e non, (divieto di avvicinamento dei luoghi frequentati dalla persona offesa, allontanamento dalla casa familiare del soggetto colpevole di questi delitti) hanno la finalità di tutelare la libertà di espressione, di movimento, di un’attività sociale della vittima, ma anche da ex partner, legati o meno da rapporti di coniugio, da soggetti ossessionati dalla presenza di questa donna nella loro vita, ostacolandole nelle relazioni sociali e di autodeterminazione nelle semplici cose (una passeggiata per esempio). Il giudice, quando sussistono esigenze di tutela della incolumità della persona offesa, può prescrivere, per l’allontanamento dalla casa familiare, altri aggravamenti di misure (il divieto di avvicinarsi a luoghi determinati e abitualmente frequentati dalla persona offesa: la casa dei genitori, la casa del nuovo compagno, per il desiderio dell’offender di non consentire di rifarsi una nuova vita da parte della persona offesa. Gli atti persecutori – ha concluso Troja –sono sottili lame che penetrano e difficilmente vengono eliminate dalle vite e per moltissimi anni, anche se tali atti assumono una veste innocente es.: 150 sms al giorno, mazzi di fiori ogni giorno). Le norme relative a questa casistica sono state recepite non presto nel nostro Ordinamento, ma da griglie internazionali ed europee. Quando il giudice deve giudicare il caso di violenza contro la donna deve farlo in maniera trasversale, con stessi parametri, sia che di tratti di “donna del Capo” o di Istanbul.
Renato Grillo, facendo leva sul destino dei ricorsi in Cassazione in materia di violenza sessuale che spesso, sfociano nell’inammissibilità – ha posto appunto il focus sull’attenuante della minore gravità. Mentre tutti i motivi che riguardano l’attendibilità della persona offesa sono destinati quasi sempre all’insuccesso, perché sono, quasi sempre, ricorsiche affrontano la rivisitazione della vicenda e mirano probabilmente, ad una ricostruzione alternativa rispetto a quella dei giudici di merito, la questione della minore gravità invece spesso, coinvolge o difetti di motivazioni, o errate motivazioni sulla qualificazione di questa attenuante. Le ultime pronunce del 2014, nel trattare anche problemi relativi alla qualità dell’atto compiuto, In particolare, l’attenuante della minore gravità si può concepire con il reato tentato, si può concepire anche il reato commesso tramite internet, perché non è detto che ci debba essere necessariamente il contatto fisico tra l’autore e la vittima di reato. L’attenuante della minore gravità incide tantissimo sulle sorti del singolo imputato. Può comportare una riduzione della pena fino ai 2/3. Ma, se a questa riduzione derivante dall’attenuante della minore gravità si sommano altre attenuanti (e spesso succede), si può arrivare ad una pena, ridicola, anche all’anno di reclusione. Nessuno vuole discutere la possibilità che l’imputato possa essere rieducato e recuperato attraverso delle pene miti, però un incoraggiamento alla vittima bisogna darlo.La vittima quale strada può avere? Quella del risarcimento del danno. Il risarcimento si ottiene dimostrando l’entità del danno subìto. (vita relazionale futura, personale intimità sessuale). Tutto questo si può provare attraverso consulenze o perizie che, spesso mancano. Perché le perizie che si fanno mirano a saggiare la lucidità della testimonianza della vittima oppure, la eventuale sussistenza di deficit intellettivo, nel caso in cui la vittima sia, in qualche modo, affetto da patologie che possono avere incoraggiato l’agente ad agire, approfittando della situazione. La vittima deve partecipare sin dall’inizio a queste indagini, avvalendosi del gratuito patrocinio, esteso in maniera generalizzata. Lo Stato (secondo gli art. 29 e 30 Convenzione di Istanbul) si deve fare garante nel momento in cui si scopre che l’autore del reato per esempio, non ha la possibilità di potere risarcire. (Un caso concreto avvenuto a Palermo, in cui la parte civile ha sollecitato l’acquisizione patrimoniale di beni del soggetto autore del reato, attraverso il sequestro conservativo. Misure spesso non adottate per una sorta di inezia, forse incolpevole, ha chiosato Grillo – che oggi non si può più giustificare alla luce delle norme che esistono.
TRINACRINEWS.EU HA INTERVISTATO ROBERTO SCARPINATO, PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO PALERMO E MIRELLA AGLIASTRO, AUTRICE, SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE DI APPELLO PALERMO
ROBERTO SCARPINATO
D. Emergono delle criticità che nella storia hanno formato una cultura votata alla sottomissione della donna all’uomo, sia da parte della Chiesa che in seno alla Magistratura, manifesta anche nelle forme della monetizzazione dei risarcimenti danni da riconoscere alla donna abusata. Lei cosa propone perché si possa rimuovere un substrato culturale che conserva una visione subalterna della donna? Chi deve intervenire per prima?
R. La situazione è abbastanza problematica perché da un lato, abbiamo una cultura plurimillenaria, risalente nel tempo, che in Italia ha sempre veicolato nelle masse una negativizzazione del femminile, che è riscattata soltanto dalla funzione di madre che sacrifica completamente la propria esistenza sull’altare dei figli. Per il resto, c’è un pensiero cattolico che porta alla de-valorizzazione del femminile che arriva sino ai nostri giorni. come dimostra il fatto che, all’interno della Chiesa cattolica le donne sono escluse dai ruoli di governo della Chiesa (non possono essere vescovi, diacone, non possono amministrare i sacramenti, a differenza di altre religioni). Questo substrato culturale ha lasciato una profonda traccia nella società italiana e anche determinato il ritardo con il quale è stato concesso il diritto di voto alle donne in Italia (soltanto dopo la Liberazione); ha fatto sì che il codice penale italiano fosse inzeppato, sino agli anni ’50-’60 di reati di carattere sessista, come il delitto d’onore, come tanti altri. Poi, l’avvento della cultura di massa e moderna sta, a poco a poco, erodendo questo substrato culturale che tuttavia, è largamente diffuso nelle fasce popolari. Tuttavia, c’è un altro pericolo che arriva all’orizzonte: cioè se, questa era una forma occulta, ormai culturalmente compresa della svalorizzazione del femminile, abbiamo una cultura post-moderna che svalorizza la donna in un altro modo, riducendola a pura merce di scambio, che come la vecchia cultura imponeva alla donna di conformarsi ad un modello maschilista che la voleva esclusivamente come madre, come sorella obbediente, oggi la nuova cultura post-moderna impone un modello: quello della donna che deve essere sessualmente compiacente, della donna che deve una sirena incantatrice per la vendita delle merci, una donna che considera il proprio corpo come una risorsa da mettere sul mercato del libero scambio; una cultura che impone alle donne il modello negativo di una donna efficiente, di una donna che considera se stessa una specie di imprenditrice, che deve essere performante e che, comunque nega alla donna la possibilità di essere se stessa. Quindi, c’è un lavoro culturale molto complesso che passa, senza dubbio, attraverso un’ingegneria giuridica, che ripristina ogni sede, i diritti delle donne – in sede legislativa per esempio – per quanto riguarda la tutela del lavoro, che è essenziale. Oggi c’è uno smantellamento progressivo della legislazione in materia di lavoro, che mette a rischio i diritti conquistati dalle donne. Non è un caso che c’è una percentuale di disoccupazione femminile che è molto più elevata rispetto a quella maschile e che costituisce, senza dubbio, un altro sintomo del fatto che non esiste parità. La recessione economica può pesare sulle donne molto di più, sia in termini di perdita del lavoro, sia in termini di retribuzione, sia in termini di arretramento dei diritti, perché, in questi casi sono sempre i più deboli e i meno garantiti che pagano. Oggi, in Italia, ancora il femminile sconta questi limiti. Per quanto riguarda la magistratura è chiaro che noi possiamo fare degli interventi chirurgici, mirati, attraverso gli strumenti che abbiamo, ma ci troviamo dinanzi a un fenomeno che ha una dimensione storico-sociale talmente grande che non può essere governato con gli strumenti giuridici ma, che deve essere affrontato sul piano culturale e sul piano del ripristino, pieno, della garanzia dei valori della Costituzione che perora invece, sono sotto attacco.
MIRELLA AGLIASTRO
D. Con il suo libro che messaggio vuole dare e a chi?
R. Il messaggio è quello di fare il punto, in questo momento storico, del complesso fenomeno della violenza sulle donne, declinato rispettivamente, sul piano legislativo sovranazionale, italiano di settore, sul piano della percezione della coscienza sociale del fenomeno e, sul piano degli strumenti idonei ad arginare la sua crescita esponenziale e trasversale. I destinatari delle riflessioni contenute nel libro sono, oltre alla categoria degli operatori professionali della giustizia, dei centri sociali e delle Forze dell’Ordine, anche le persone che si riconoscono vittime di prevaricazione e violenza, sia endofamiliare, sia in ambito lavorativo e socio-relazionale e trovano nel testo le linee guida della propria difesa e delle realtà territoriali a cui rivolgersi, quando la vittima decide di iniziare un percorso di autonomia e di riscatto.
D. Emerge palese la necessità di formare la Magistratura, gli Avvocati e la Polizia Giudiziaria sul tema delicato della violenza su donna e minori. Su quali ambiti lei invoca un aggiornamento?
R. Intanto, penetrare la struttura del rapporto disfunzionale o della “relazione di intimità” tra l’uomo prevaricatore e violento e la donna vittima e soggetto vulnerabile, studiandone le dinamiche sul piano antropologico e criminologico. Poi, bisogna conoscere i protocolli che devono essere utilizzati dagli operatori che devono affrontare la vittima che sporge denuncia/querela, unitamente agli “indicatori di pericolosità” del comportamento antisociale dell’individuo (es.: la ricorsività degli schemi di comportamento criminale da un lato, i meccanismi di difesa dell’altro, la disamina del modello comportamentale manifestato del reo o dei suoi atti di violenza posti in essere, spesso preceduti da situazioni di stress psico-sociali, di fattori dinamici catalizzatori di comportamenti criminosi, come l’assunzione di farmaci, sostanze alcoliche, dopanti o stupefacenti, etc.
D. Perché si parla di abuso dello strumento giuridico dello Stalking?
R. Lo stalking è costituito da tutte quelle condotte persecutorie poste in essere contro la vittima, quando il partner non accetta la fine di un rapporto, ed assume così, un comportamento molesto, per una declamata sconfitta dell’ego maschile e possessivo, o per vendetta. L’abuso risiede nella valutazione che fa la presunta vittima anche di singole condotte o di singoli episodi del presunto molestatore che essa qualifica tali nella denuncia e che fanno scattare un apparato di presidio anche di polizia che la configurazione di altri minori reati non farebbe entrare in gioco. “L’abuso” pertanto prende forma, come espediente, infondato, laddove questa tipologia di donna mira ad ottenere una tutela, che si estrinseca nella manifesta esigenza di cessazione del corteggiamento da parte dello “spasimante, che tuttavia, non sempre configura gli estremi del reato di “Atti persecutori” o stalking. L’abuso dello stalking quindi, non risiede né nella legge, né nella giustizia, né presso gli operatori che hanno ben chiara la disciplina applicabile e comunque dispongono di tutti gli strumenti di formazione, anche culturale e professionale per valutare la denuncia sporta. Un punto di debolezza del reato di stalking è invece, il confine (sottile) tra il reato di maltrattamenti e quello di stalking. Appartiene alla capacità del difensore e soprattutto del giudice fare piena luce sulle specifiche condotte poste in essere dagli autori della violenza e qualificarle adeguatamente.
D. Come prevenire la ritrattazione della vittima abusata?
R. La ritrattazione si può prevenire, anche se con difficoltà, sotto diversi profili. Così, dal punto di vista giudiziario, invocando da parte del PM lo strumento dell’incidente probatorio, sì da “cristallizzare” – in ogni caso nel contraddittorio – il coacervo degli elementi a carico dell’autore della violenza; dal punto vista dell’assistenza sociale, chiedendo ai servizi sociali ed ai centri anti-violenza l’assegnazione di un nuovo recapito (segreto) presso case di accoglienza protette in favore della vittima abusata (es. Associazione Le Onde ONLUS, Centro Armonia presso ASP di Palermo, Consultori familiari, SERT, ecc.). Nel libro sono indicati tutti i riferimenti sul territorio di Palermo nel paragrafo “l’esperienza del lavoro in rete” a pag. 217.
Pur tuttavia, è il grado di vulnerabilità della donna che, essendo legata da un rapporto sentimentale al suo aggressore, spesso compromette o impedisce la procedibilità in tutti i gradi del processo a carico dell’autore di violenza. In particolare, basta una manifestazione eclatante di pentimento, di gesti istrionici e attenzioni inattese poste in essere “artatamente” dal violento amante, per sedurre e fare desistere la vittima violata, inibendole così, una valutazione oggettiva della condotta violenta subìta. Da qui, il naufragio del primigenio intento cautelativo posto in essere dalla vittima nella fase di maggiore pericolo alla sua incolumità psico-fisica, espresso con la denuncia alle Forze dell’Ordine. In questo caso la Pubblica Accusa, che tante energie ha dedicato alla vittima nella fase delle indagini preliminari, si trova al dibattimento con un compendio probatorio scosso alla radice e vede infranto l’obiettivo di condanna del compagno violento, maltrattante ed abusante, che ha di nuovo in mano la sua vittima pronta per un nuovo ciclo di violenza, fino alla prossima corsa al Pronto Soccorso dove dirà – ancora una volta – che “è caduta dalle scale o si è fatta male accidentalmente”.Noi Pubblici Ministeri al giudice del dibattimento dobbiamo portare prove.