L’ho rivisto solo ieri dopo questa estate, al ritiro precampionato di Malles e quasi non lo riconoscevo: pallido, esangue, lo sguardo basso. Mi si è stretto il cuore, perché quest’uomo rimane sempre il mio presidente e ha fatto tanto per me. E per quelli come me. Che sono tanti, più di quelli che certa gente immagina.
Ma giovedì scorso, nella conferenza stampa di presentazione di Pietro Lo Monaco, quale nuovo amministratore delegato della società rosanero, lui, per la prima volta, non era il prim’attore: Zamparini era lì, davanti ai giornalisti, intervenuti al gran completo, solo per fare gli onori di casa. E li ha fatti diligentemente, ma senza un sorriso e con un tono di voce basso e monocorde, come succede negli avvicendamenti societari, un dirigente da qui passa lì… Routine, insomma, solo che quel che stava succedendo ieri, nel pomeriggio arso dal sole di questa estate che non se ne vuole andare, non lo era affatto. Stava, infatti, avvenendo un autentico ribaltone. L’ennesimo – e nulla di più – della sua ultradecennale, vulcanica gestione societaria? Nient’affatto, stavolta Zamparini era lì per annunciare che si sarebbe tirato indietro per lasciare tutti i poteri, tecnici, gestionali e amministrativi a Pietro Lo Monaco. Un po’, come nell’antica Roma, fece Cincinnato che, stanco degli intrighi di corte, all’improvviso mollò tutto e si ritirò nelle sue campagne fuori città. Solo che Zamparini nelle vesti e nel modus operandi di uno come Cincinnato non me lo sarei mai immaginato, lui che manda scintille col solo sguardo e non si ferma mai: una ne pensa e cento ne fa. Basta guardare i numeri dei soli allenatori e direttori sportivi sostituiti – per non citare staff medico in blocco e dirigenti anche di massimo livello – per provare un forte giramento di testa, uno di quelli che neanche la peggiore labirintite ti può provocare.
Ma stavolta il passo che stava compiendo era epocale: Da qui alla fine del campionato non parlerò più con voi (e, alzando lievemente gli occhi, sogguardava i giornalisti), quindi per favore non telefonatemi: da oggi, per tutto, il vostro interlocutore sarà Lo Monaco!. E il tono della voce era sempre uguale, monocorde, bassa, come lo sguardo. Com’avesse paura di incrociare quello dei giornalisti che, a suo dire – e qui si è avvertito un lieve risentimento – mi avete spinto a questo passo, stanco come sono dei vostri attacchi e delle vostre bugie!. Anche questa dichiarazione, forte nella sostanza, usciva però dalla sua bocca come un lamento, come una fatica anziché uno sfogo dell’anima.
Ma non voglio fare la cronaca di quell’incontro con la stampa, della quale già si è detto e scritto tutto e pure di più. Io voglio solo trasmettere a chi avrà la pazienza di continuare a leggere queste mie note, come sia rimasto colpito dalla metamorfosi kafkiana avvenuta giovedì scorso verso le ore tre del pomeriggio in un uomo come Maurizio Zamparini. Ovvero, uno dal carattere, dalla personalità e dalla forza mentale che credevo inattaccabili a tutti i livelli e ad opera di chicchessia. Invece, la vita ti spiazza proprio quando meno te l’aspetti, perché non mi ha trovato impreparato tanto l’ennesimo, pur radicale, ribaltone societario, quanto il “modo” nel quale lo ha realizzato: sommessamente, a voce e sguardo bassi, senza mai alzare il tono, né mostrare alcun risentimento, se non quel rapido cenno alle “bugie della stampa”, sopra accennato. Mi ha colpito il fatto di aver conosciuto, dopo tanti anni, uno Zamparini inedito, irriconoscibile, neanche lontano parente con quello noto, anzi arcinoto. E tuttavia, capace di lasciarci tutti di stucco una volta di più. Come succede solo ai personaggi di spessore e mai alla gente qualunque.
E le sorprese non erano finite qui, perché, terminata la conferenza stampa, Zamparini è stato affrontato a muso duro, seppur civilmente, dai pochi (una ventina in tutto, dicono le cronache della giornata) tifosi in attesa nel piazzale antistadio: è lì, in quella rapida sequenza filmica, che vedeva un uomo solo e stanco, preso d’infilata da un gruppo di tifosi ringhiosi, uno di questi gli ha sibilato velenosamente che lei non è più il mio presidente, quello del quale tenevo il poster nella mia stanza!. E vederlo, Zamparini, un guerriero capace di affrontare con fiero cipiglio ben altro che uno, due o venti tifosi scontenti, bloccarsi di colpo, quasi impigliarsi nelle parole e infine replicare irosamente: No, non voglio che lei tenga il mio poster nella sua stanza. Lo butti via!, per poi aggiungere, in un impeto di rabbioso amor proprio. Siete cinquanta a contestarmi, non siete voi i tifosi del Palermo: voi non mi meritate!. E infilarsi con un saltello in macchina e sgommando a zig zag in un baleno sparire dalla vista.
Questa scena può essere indicata come l’esempio tipico di come vanno certe cose nella vita: se sei alla ribalta, ti osannano e ti si strofinano addosso quasi lascivamente, ma se per errori tuoi o d’altri, scivoli in basso, non solo non trovi la mano amica di nessuno, ma quello stesso che ti si sbavava addosso ti rinfaccia pure d’essere nato. Perché gli errori nella vita li facciamo tutti e purtroppo ce ne accorgiamo quasi sempre quando è troppo tardi, ma è comodo dire bravo ad uno che vince e poi ignorarlo – o peggio – quando non vince più. E Zamparini ha vinto per anni, ha ridato lustro e dignità a una tifoseria ridotta al punto di doversi quasi vergognare della propria passione rosanero: e fin lì, tutti a osannarlo, a condurlo in giro per la città e offrirgli pane e panelle: Cu tutt’u cuori, presiré… Assaggiassi sti cazzilli e viri ca ri ca, ri ‘nPaliemmu lei un sinni va cchiù!. E così fu, quel presidente, che aveva appena rilevato il Palermo da Sensi, in serie B, in due anni lo portò in serie A e ne erano passati trentuno dall’ultima volta (allenatore De Grandi, presidente Barbera, capitano Vanello) e da allora in serie A lo ha mantenuto, passando più volte dall’Uefa Europa League. Poi il vento cambiò, cambiò pure la sua voglia di rischiare nel calcio e in due anni ha quasi sciupato l’egregio lavoro degli otto precedenti e il Palermo, dopo averla sfiorata l’anno scorso, la serie B ce l’ha già dietro la porta. E questo i tifosi non riescono a perdonarglielo e, come succede nella vita (e perché no anche nel calcio?) sono passati repentinamente dall’amore all’odio. Peggio, al disprezzo. Perché si può perdonare chi si odia ma non chi si disprezza.