Io voglio quella sua stanza là com’era, che stia là viva, viva della vita che io le do, ad attendere il suo ritorno, con tutte le cose com’egli me l’affidò prima che partisse. Che Dio vuole che mi viva ancora, mio figlio! – Così. – Non certo più di quella vita che Egli volle dare a lui qua; ma di quella che gli ho data io, sì, sempre! Questa non gli può finire finché la vita duri a me! “La vita che ti diedi” di Luigi Pirandello.
Proprio dall’opera pirandelliana, prende spunto il film “L’attesa” del regista calatino Piero Messina, in concorso alla prestigiosa Mostra cinematografica di Venezia, alla sua 72° edizione, poi presentato all’International Film Festival di Toronto, dove ha riscosso grande interesse. Un orgoglio tutto siciliano, quello di Piero Messina, già vincitore con il cortometraggio “Stidda ca curri”, del 50° Taormina Film Fest, e assistente alla regia di Paolo Sorrentino nei film “This must be the place” e “La grande bellezza”. Ambientato nella sua Caltagirone, in un paesaggio narrativo che fa da sfondo alle memorie d’infanzia e alle tradizioni popolari di una Sicilia inedita, a tratti grigia e fosca, i protagonisti si raccontano nelle ombre e nei silenzi pesanti di un’attesa.
Si è svolta, presso il Grand Hotel delle Palme, a Palermo, la conferenza stampa con il regista de “L’attesa”, Piero Messina per salutare il pubblico e la stampa, prima dell’inizio delle proiezioni. L’incontro è stato introdotto da Alessandro Rais, direttore dell’Ufficio Speciale per il Cinema e L’audiovisivo/Sicilia Film Commission della Regione Sicilia.
La pellicola narra la storia di due donne, Anna (il premio Oscar Juliette Binoche) e Jeanne (Lou de Laâge), (entrambe francesi, entrambe estranee, nella terra dove si incontrano), una la madre, l’altra la fidanzata, nell’assenza di Giuseppe. Una, avvinta dal dolore del lutto, l’altra ignara. Nelle verità nascoste e nei silenzi velati, nasce una complicità insolitamente emotiva ed intima, tra le due protagoniste, che rappresenta il “fil rouge” del film. Surreale, quasi onirica l’attesa di Anna, che nella menzogna, inconsciamente ordita verso Jeanne, del ritorno di Giuseppe, tesse la trama del racconto, mentre la giovane e vivace amante, nutre la casa di nuova vitalità.
Il momento catartico si svolge, poi, durante la processione di Pasqua (scena madre del film), dove i due personaggi quasi si trasformano in Maria Vergine e Maria Maddalena, per accogliere il ritorno di Giuseppe.
Il progetto – afferma il regista – nasce da una storia realmente accaduta, raccontatami da un amico, simile a quella del film, in cui un uomo di fronte alla scomparsa del figlio, per un tempo in quel caso ragionevole di un giorno, decise di non parlarne, creando così quel lieve corto circuito in cui le persone attorno a lui, iniziavano ad omettere questa cosa per rispettare il suo dolore. Questo aneddoto mi ha colpito e l’ho portato con me per tanto tempo. Questa storia, poi, quasi in maniera naturale, mi portava a ricordare la processione di Pasqua, nel mio paese, ‘A Giunta. Ero convinto, che ci fosse un legame tra queste due esperienze sospese, apparentemente distanti, così ho detto ai miei sceneggiatori, appena ho deciso di scrivere il film, che sarebbe dovuto iniziare da lì e finire lì.
Quello che accade nella processione pasquale è ciò che accade ai personaggi nel film: migliaia di persone decidono di credere a qualcosa di irreale, cioè che una statua, un pezzo di legno, sia qualcos’altro; ma nel momento in cui credono insieme questa cosa assurda,si realizza, almeno emotivamente. Ricordo, infatti, da bambino, queste facce trasfigurate che piangevano, mostrando una , vera e profonda commozione. Così anche nel film, si parte da una realtà impossibile, inaccettabile e questa verità, che inizialmente è una bugia, nel momento in cui viene condivisa, diventa una verità credibile.
TrinacriaNews.eu ha intervistato per i lettori Piero Messina.
Il film è siciliano, in una realtà siciliana. Come mai la scelta di due attrici francesi?
Per quanto riguarda la ragazza, Lou de Laâge, era una scelta di scrittura mutuata da una piece di Pirandello “La vita che ti diedi”. Un personaggio estraneo alla Sicilia, Jeanne, viene catapultato in una realtà che non conosce, questo mi piacque moltissimo ed è quello che abbiamo tratto dal testo teatrale. Mentre per Juliette, è stata una decisione successiva. Ero consapevole, come regista, che il film si basasse essenzialmente, su una casa vuota e due persone, quindi se non si ha a disposizione due attrici straordinarie, forse è meglio rinunciarvi. Non mi sono mai posto il problema della nazionalità nel film, ho cercato il meglio e basta. A Toronto, mi è stato detto che è un film sicilianissimo, ma non c’è un attore siciliano e non c’è nulla di evidentemente siciliano e per me è un complimento. Forse ho voluto evitare il rischio che si cadesse in certe superficialità, essendo il mio primo film, di raccontare una Sicilia stilizzata, del dialetto, dell’accento, del muoversi in un certo modo. Dopotutto, non mi interessava avere necessariamente un attore siciliano e non se ne è colta l’occasione; quello che serviva, era un’attrice che può lavorare (in termini tecnici), su certi registri, che riesce a sintetizzare nei silenzi l’espressività del film. Le cose importanti accadono dove non si parla, insomma, si sviluppa proprio nei silenzi. Inizialmente è stato un riferimento ideale, da imitare nella scelta dell’attrice, poi è diventato concretamente Juliette Binoche. All’inizio non ho pensato che fosse francese, per questo è stato un film entusiasmante: tutte le scelte sono state prese con incosciente ambizione di partenza ,da studenti di cinema, poi ho avuto la fortuna di trovare un produttore forse incosciente quanto me.
In che modo l’esperienza con Paolo Sorrentino è stata utile nel film?
Paolo per me è una persona importante, umanamente innanzitutto, artisticamente sono stato con lui tanti anni, in realtà due film. Trovo che i film di Paolo sono molto diversi dal mio. Una cosa li accomuna: entrambi lavorano su tutto ciò che è la dimensione audiovisiva di un film. Io sono ossessionato da ciò che è un’immagine, ciò che è un suono, più da spettatore innanzitutto, che da regista. I film che, quando esco dalla sala, non riesco a raccontare, sono i film più belli, che hanno utilizzato la potenza visiva dell’atmosfera per raccontare qualcosa. La stesa cosa fa Paolo, la stessa cosa fa Sokurov, Tarkovskij. I set di Sorrentino sono, vorrei sottolineare, molto pesanti, hanno una tensione altissima, come anche nei miei set. Stare con lui mi ha dato la capacità, di reggere le pressioni, a quelle temperature, con molta tranquillità, mi ha preparato a certi livelli di tensione . Un’altra cosa che ho imparato da Paolo, ma forse anche che ho maturato con gli anni è che sul set è bello stare da solo, o comunque con le persone che davvero credono in quello che stai facendo, senza trovare soluzioni solo per compiacere un certo tipo di critica.
Come è lavorare con la Binoche?
E’ entusiasmante lavorare con lei; è un’attrice seria, esigente, come è giusto che sia sul set. Nessuno di noi sul set è in vacanza; quindi è giusto che ci sia un’elevata concentrazione, soprattutto quando si fa un film come questo, dove si toccano dei temi, delle corde dolorose. Umanamente è una persona straordinaria.
Una Sicilia grigia, senza sole. Fatto apposta per rappresentare il dolore dei personaggi?
Sì, fatto appositamente per raccontare quel tipo di emozione, che forse non è dolorosa, ma che è sospesa. Mi interessava raccontare una Sicilia astratta, stilizzata e questo mi interessava sia per la storia, sia per raccontare un paesaggio siciliano che esiste in realtà, che è poco raccontato, che è quello della Sicilia priva del sole.