Palermo – Associazioni, Nomi e Numeri contro le Mafie. Sono i dati che il Dipartimento della Funzione Pubblica – Ufficio per la formazione del personale delle pubbliche amministrazioni – nell’ambito degli interventi previsti dai Programmi europei 2007-2013 a sostegno dei territori dell’Obiettivo convergenza, ha affidato a LIBERA, da anni impegnata, a livello nazionale, nella diffusione della cultura della legalità e nella valorizzazione dei beni immobili confiscati. Obiettivo, la realizzazione del progetto “Azione di supporto ai Comuni impegnati nella gestione dei beni confiscati”. A conclusione del progetto, LIBERA e l’UNIVERSITA’ DI PALERMO hanno organizzato il forum regionale dal titolo “I beni confiscati alle mafie: quali opportunità per lo sviluppo della Sicilia”.
Il forum si è svolto presso i locali del Consorzio ARCA (Viale delle Scienze, edificio 16). Ne hanno discusso, il procuratore generale presso la Corte di Appello di Palermo, Mirella Agliastro, il presidente del consorzio Arca dell’Università di Palermo, Umberto La Commare, il sindaco di San Giuseppe Jato, Davide Licari. I lavori sono statimoderati e coordinati dal coordinatore di Libera in Sicilia e responsabile regionale del progetto, Umberto Di Maggio.
Il coordinatore Regionale di Libera, ponendo in rilievo il lavoro e il sacrificio di sangue di chi si è strenuamente impegnato per strappare i beni ai mafiosi e darne l’uso a tutta la collettività, ma anche delle criticità altresì emerse, ha manifestato la necessità di fare di più in Sicilia, dove tutto è incominciato. Non ci basta – ha asserito Di Maggio – perché ci sono serie difficoltà. L’immenso patrimonio é ancora in gran parte, non utilizzato. Per risolvere i problemi non basta sedersi intorno ad un tavolo, chiudersi negli uffici e pianificare soluzioni a tavolino che probabilmente poi, non sono calzanti con i bisogni delle Comunità. Ecco il perché di questo progetto, ecco perché questo incarico conferito a questa organizzazione nelle quattro Regioni del Sud Italia. Ecco perché in questa terra di Sicilia il focus è sul territorio dell’Alto Belice Corleonese, e nello specifico, il territorio che racchiude i Comuni che fanno parte del Consorzio Sviluppo e Legalità, quindi la provincia di Palermo che è la provincia al mondo con più beni confiscati, utilizzati e non utilizzati.
Umberto La Commare, snocciolando le criticità del sistema imprenditoriale siciliano, deprivato della conoscenza e competitività, ha proposto il rilancio dello sviluppo socio-economico “sano” dell’isola e dei giovani laureati siciliani che scelgono la legalità e di rimanere in Sicilia. Tra i giovani laureati in Ingegneria gestionale, nel 2000 il 60% andava a lavorare fuori Sicilia, oggi è l’80%. Questi ragazzi – ha continuato La Commare, vengono assunti prima di laurearsi, andando a rafforzare la capacità competitiva di altri territori. Ciò determina, secondo la Commare – un percorso al contrario per la Sicilia, in chiave competitiva e di innovazione. Oggi, l’innovazione si può fare solo con la conoscenza, essendo i giovani (che hanno avuto la fortuna di studiare), i portatori di innovazione. Se tutti i portatori di interesse in Sicilia non si concentrano su politiche di inclusione dei giovani nell’economia, questa regione andrà sempre più desertificandosi nell’intelligenza e più giovani se ne vanno, meno innovazione si farà e ancor più giovani se ne andranno. Occorre invertire la tendenza. L’idea del prof. La Commare è quella di proporre percorsi di imprenditorialità, di capacità di connessione della conoscenza con il mercato, perché la valorizzazione della conoscenza si fa sul mercato direttamente. Non è automatico che la conoscenza si traduca in valore economico, come non è automatico che la legalità si traduca in valore economico. Secondo La Commare, conoscenza e legalità sono precondizioni dello sviluppo. Ma, prendendo spunto dai successi sulla legalità – ha affermato La Commare – per i quali i magistrati con le Forze dell’Ordine sono riusciti a cambiare una condizione che vent’anni fa sembrava impossibile, perché non impegnarsi insieme, perché da questo impegno straordinario dello Stato si possano creare le nuove condizioni per creare adesso lo sviluppo “sano” che passa attraverso l’inclusione di giovani nell’economia? I soldi sono lo strumento, il fine è l’uomo. La capacità di profitto dell’impresa è una risorsa fondamentale della società. Senza imprese un territorio è povero. Il riferimento va alle imprese che rispettano le regole, che stanno sul mercato perché sanno competere, libere, perché non impongono con la forza gli orientamenti dei loro clienti. Infine, La Commare ha riferito che: il risultato raggiunto con il Consorzio Arca – se non ha risolto tutti i problemi dell’occupazione di Palermo, ha messo a punto un metodo di valorizzazione delle conoscenze, di creazione di comunità imprenditoriali non, imprese singole. Oggi, delle 40 imprese nate intorno all’incubatore di impresa ci lavorano 200 persone.
E’ seguito l’intervento della dott.ssa Mirella Agliastro che, riconducendosi all’esperienza di magistrato inserito nel pool delle Misure di Prevenzione della Procura Generale di Palermo, ha riferito di una realtà imprenditoriale mafiosa siciliana, in cui è frequente riscontrare un fenomeno di commistione di risorse finanziarie lecite e illecite e di attività economiche, svolte con metodo mafioso che altera il regime di libera concorrenza del mercato.
I settori merceologici in cui si è potuta accertare una componente di infiltrazione mafiosa – ha riferito il Magistrato Agliastro – possono riguardare il mondo del trasporto su gomma dei prodotti agro-alimentari, ovvero il mercato della distribuzione alimentare, ed ancora l’edilizia pubblica e privata, uno spaccato di fenomeni borderline sui quali il mondo giudiziario ha da tempo svolto i propri accertamenti, in concomitanza con i sequestri e le confische di società e di compendi aziendali che risultano inquinati o perché facenti capo a soggetti mafiosi o loro prestanome, oppure perché la conduzione delle attività è riconducibile a contesti di rapporti imprenditoriali mafiosi.
Un settore di particolare interesse per le cosche mafiose – secondo quando riferito dalla Dott.ssa Agliastro – è quello del calcestruzzo. “L’ambito del cemento è strategico per cosa nostra” perché attraverso il controllo della filiera produttiva del cemento e delle forniture si controlla tutto il settore dell’edilizia e dei pubblici appalti, come peraltro moltissime indagini compiute hanno potuto dimostrare. Continuando, il Procuratore ha sottolineato che, assai spesso si è scoperto l’utilizzo di cemento depotenziato che mette in pericolo anche infrastrutture pubbliche e immobili. Per questo, a volte succede che vengono sequestrati non solo gli impianti di calcestruzzo ma, anche le cave da cui viene estratto il materiale ove venga dimostrato che, anche il possesso della cava abbia avuto origini illecite.
Naturalmente, nell’ambito dei provvedimento di confisca si deve sempre distinguere quella parte di beni che non è più nella disponibilità dei proposti, per essere gli immobili stati venduti ad acquirenti in buona fede: non essendo più il bene nella disponibilità del mafioso o del prestanome, non è possibile perseguire chi legittimamente ha acquistato beni dimostrando la corresponsione del prezzo stabilito.
Per questo – ha concluso Agliastro – l’attività giudiziaria riguardante la materia delle misure di prevenzione è una materia delicatissima che impone accertamenti approfonditi ed assoluta vigilanza sulle acquisizioni probatorie.
Davide Licari, concludendo gli interventi, in qualità di Sindaco, ha voluto da subito contrastare l’opinione diffusa secondo cui, S. Giuseppe Jato è territorio mafioso affermando che, tale comunità rappresenta piuttosto, un esempio. “Se tutti i mafiosi di S. Giuseppe Jato sono nelle patrie galere, con la felicità di noi tutti Jatini, evidentemente, essendo ancora liberi di appartenere al Comune di S.G. Jato, quasi 9 mila persone, vuol dire che i mafiosi sono pochissimi e il resto della comunità Jatina è fatta di gente onesta, per bene. Questo territorio bello è stato macchiato, così come tanti altri Comuni dell’Alto Belice Corleonese dalla nomea di mafiosi – ha aggiunto Licari. Il sindaco Jatino ha ricordato un motivo per cui a San Giuseppe Jato è nata e si è incrementatala mafia: un paese assai giovane, costruito appena 250 anni fa, da popolazioni che si spostavano e cercavano un luogo in cui andare ad abitare, trovando sul monte Jato un territorio fertile, pieno d’acqua, produttivo. Di conseguenza, queste popolazioni lì si sono fermate. Lì, dove mancano le radici, manca anche qualcosa che si ricollega al senso civico. Quindi, di fatto, lì probabilmente, è nato il seme che ha determinato questa esperienza negativa. S.G. Jato fa parte dei Comuni del Consorzio “Sviluppo e Legalità”, istituito nel 2000, per intuizione dell’ex prefetto di Palermo, Renato Profili. Intuizione significativa, in un periodo in cui non si sapeva cosa fare dei beni confiscati alla mafia. Così Profili ha pensato bene di unire quei beni confiscati che prima erano stati sequestrati, per renderli produttivi. Tale consorzio è una esperienza positiva che va presa ad esempio anche da altre esperienze del presente che, invece, positive non sono. Continuando Licari, ha precisato che – il Consorzio, composto dai Comuni di Monreale, San G. Jato, San Cipirello, Roccamena, Piana degli Albanesi, Altofonte e Camporeale, rappresenta un bacino di territorio in cui la mafia ha proliferato, ha accumulato tantissimi beni ed in cui la mafia, ha posto materialmente, le sue radici. S.G. Jato è anche la sede legale del Consorzio, quella amministrativa è a Monreale. Di questi beni, composti da fabbricati e terreni coltivabili, circa 700 ettari di terreno danno lavoro a circa 100 unità, tra soci, lavoratori e componenti dell’indotto che esulano dalla fattispecie considerata. Queste unità sono persone del territorio, che testimoniano il cambiamento radicale, conferendo legalità a tali beni, che prima simboleggiavano il sopruso e la mafiosità. Purtroppo, molti di questi beni sono improduttivi– ha chiosato Licari – a causa di tutte le lungaggini burocratiche, che addivengono all’assegnazione ai Comuni, oppure al Consorzio o perché, mancano i fondi per la loro messa il sicurezza e in produttività. I beni vengono gestiti mediante operative sociali antimafia, che nascono nel territorio, con una storia importante, riconducibili a profili che danno tutte le garanzie necessarie (tra queste, Libera Terra Mediterranea – che ingloba Placido Rizzotto e Pio La Torre – poi, Non solo lavoro,Beppe Montano, etc.). Risultato comunque impossibile da raggiungere – ha precisato il Sindaco – senza Don Luigi Ciotti, che ha stravolto tutto.
TrinacriaNews.eu ha intervistato Davide Licari, sindaco di San Giuseppe Jato, Mirella Agliastro, procuratore generale presso la Corte di Appello di Palermo e Umberto Di Maggio, coordinatore di Libera in Sicilia e responsabile regionale del progetto. Ecco di seguito le interviste:
DAVIDE LICARI
D. Il Comune di San Giuseppe Jato, tentando di uscire dal suo passato aderisce alle varie iniziative come quelle di “Libera”. C’è riuscito? Quante resistenze ancora?
R. San Giuseppe Jato tenta il riscatto attraverso l’utilizzo dei beni confiscati. Questo significa fondamentalmente, due cose: che cerca il riscatto attraverso un percorso di legalità, in un territorio che ha subìto la criminalità; un territorio si é svegliato una mattina come l’apice di un sistema, di un’organizzazione: quella di cosa nostra e da dove si tiravano le fila di tante cose e di tante iniziative criminose. C’è riuscito attraverso intanto, il coraggio dei ragazzi che hanno aderito alle cooperative sociali antimafia, c’è riuscito attraverso l’aiuto e il sostegno di quelle persone che hanno dato un contributo, non solo a San Giuseppe Jato, ma all’Italia intera. Il riferimento va a Don Luigi Ciotti. E’ vero che non si devono creare le Lobbie. Però è attraverso questi uomini che, in questo momento, siamo riusciti a raggiungere dei risultati. Adesso, l’organizzazione dell’assegnazione dei beni confiscati alla mafia magari si estenderà, ingloberà altri soggetti, altre associazioni e questo importante, perché tutti lo vogliamo. Però non ci dobbiamo dimenticare che, chi ha fatto da spartiacque è Don Luigi Ciotti.
D. I Comuni vicini geograficamente a S. Giuseppe Jato, anch’essi esposti al fenomeno criminale, come S. Cipirello e simili, stanno aderendo, si stanno facendo contagiare da questa “aria nuova”?
R. Intanto voglio dire che, non mi piace parlare di antimafia, oppure riconoscersi come colui il quale fa antimafia. I simbolismo dovremmo lasciarlo da parte. Ci sono delle realtà e dei Comuni che hanno intrapreso questa strada. Corleone addirittura, ha intrapreso questa strada parecchi anni prima, attraverso un movimento che nasceva dal basso, dalla società civile, dai ragazzi e dalle Istituzioni. Ricordo l’allora Sindaco, Cipriani che ha dato un impulso a questa azione di riscatto. Credo che continui a proseguirla. San Cipirello è un Comune limitrofo a S. G. Jato. Probabilmente è stato investito meno del fenomeno mafioso. Probabilmente ci sono stati mafiosi arrestati a S. Cipirello, però non ha manifestato – lo dico con onestà – la stessa intensità, in questa azione di riscatto, che l’ha fatto il Comune di San Giuseppe Jato. Non credo che ciò sia legato al fatto che le Amministrazioni non ci credessero. Credo che, probabilmente non ne ha sentito la stessa esigenza come il Comune di San Giuseppe Jato. Ci sono altri Comuni che, probabilmente, in questo momento, non hanno intrapreso lo stesso percorso, perché evidentemente hanno ancora, al loro interno, delle resistenze culturali importanti.
D. Il sacrificio del piccolo Di Matteo, sciolto nell’acido, è servito? Ci sono dei frutti?
R. Il sacrificio del piccolo Di Matteo é servito quanto meno, a far capire che, più in basso di così la mafia non poteva andare, avendo la mafia infranto una regola del loro codice, che sembrava scritta col sangue, invece, in realtà, è stata assolutamente violata. E’ servito perché, tutte le volte che se ne parla, in qualsiasi contesto, suscita emozioni alla gente di San Giuseppe Jato. Questo significa che, la gente ha vissuto questa esperienza con un dolore immenso e come un dramma. Quindi, da questo punto di vista è servito. Ma, non si deve mai arrivare a dire che, un sacrificio di un essere umano, meno che meno, di un bambino, possa servire a questo. Poi, la storia dirà che invece, è servito, però è dura da accettare.
MIRELLA AGLIASTRO
D. Quali ostacoli incontra un amministratore giudiziario nella gestione di un bene confiscato alla mafia?
R. Con riferimento alle aziende mafiose che vengono rilevate dalle amministrazioni giudiziarie è necessario trovare strumenti per far fronte all’inevitabile aumento di costi di gestione: il processo di legalizzazione dell’azienda costa; la necessità di fare fronte al pagamento degli oneri fiscali, che prima non faceva; gli oneri contribuitivi che prima, con il lavoro nero non faceva; la regolarizzazione dei rapporti di lavoro, l’applicazione della normativa sulla sicurezza nel lavoro, sono tutti fattori che comportano la lievitazione delle uscite da parte delle imprese. Tutto questo costa, la legalità costa. Tuttavia, l’amministratore giudiziario non si può sottrarre dal gestire le aziende nella legalità. La contraddizione è un po’ questa, che introducendo la legalità, aumentando i costi, molte volte l’impresa purtroppo, non è in grado di fronteggiare tutti gli oneri che il rispetto delle leggi richiede e quindi, deve chiudere i battenti. Dobbiamo lavorare su questo, magari chiedendo particolari agevolazioni creditizie o l’alleggerimento degli oneri fiscali: ma la strada per questo è molto lunga.
D. Il rischio che i beni possano ritornare ai mafiosi è incombente? Quali i fattori che possano prevenire tale fattore?
R. Intanto la vigilanza. Cioè, vigilare che la disponibilità dei beni non vada a persone che siano prestanome dei vecchi mafiosi. Quindi, le indagini, i controlli da parte dei soggetti che assumono la gestione dei beni, devono essere indirizzati non solo al censimento degli immobili e dei beni nella disponibilità dei mafiosi, ma anche al monitoraggio del personale dipendente che è incardinato nelle aziende sequestrate perché a volte, si tratta di parenti di mafiosi, incensurati e quindi, non è facile risalire al contesto mafioso di provenienza.
D. La norma da poco approvata che prevede la responsabilità civile dei magistrati, espone ad un maggiore aggravio/danno il magistrato che si vuole pronunciare con una sentenza di confisca di un bene?
R. Io penso che tutti abbiamo grande senso di responsabilità nell’affrontare questa materia così delicata. Questa norma ci deve indurre ad essere sempre più vigili, conoscere tutti gli atti del processo, dalla prima pagina all’ultima, conoscere la giurisprudenza, applicare bene le linee-guida che scaturiscono dagli orientamenti giurisprudenziali prevalenti per evitare problemi di colpa professionale.
UMBERTO DI MAGGIO
D. Le azioni di supporto ai Comuni previste dal progetto in cosa si traducono?
R. Si traducono in strumenti concreti da dare ai Comuni. Quando dico strumenti intendo competenza. Molto spesso un Ente locale non fa semplicemente perché non sa fare; tante volte non vuole fare, ma spesse volte perché non sa fare. Quindi, si perde nella burocrazia del temporeggiare. Esempio: sul tema dei beni confiscati, molto spesso, accade che un Comune non sa che per regolamentare un bene confiscato alla mafia, occorre un regolamento comunale, che garantisce trasparenza, democrazia assoluta, e si tratta di uno strumento che vincola la P.A. Avere un Regolamento significa essere assegnatari del bene confiscato laddove si adottano dei criteri. Diversamente non si può prendere quel bene, quando non si applicano i criteri richiesti. Invece, spesso si agisce, affidandosi alla discrezionalità dell’Ente locale e all’improvvisazione. Quando c’è l’improvvisazione, il dipendente comunale improvvisa.
Noi, con questo progetto, stiamo cercando di informare tutti gli Enti locali che abbiamo coinvolto il questo percorso sull’esistenza di certi strumenti consolidati, che hanno funzionato, in alcuni contesti, che noi vi proponiamo. Lo strumento consortile per esempio, comporta l’agire in rete di più amministrazioni comunali per il conseguimento dei beni confiscati, con un percorso più facilitato rispetto al Comune piccolo e solo. Infatti, è inutile che questo piccolo Comune se la canta e se la suona sostenendo che non c’è la fa, che non riesce con un solo bene confiscato, non riesce ad intercettare bandi europei. Allora, l’invito è di creare rete con i Comuni vicini, sì da fare massa, potendo proporre una progettualità con 10 beni confiscati da ristrutturare 10 beni confiscati da assegnare e certamente si avranno più possibilità di implementare un progetto dignitoso, che ha più possibilità di essere finanziato. Al dipendente comunale, che non ha il Regolamento, in quanto il suo Comune non è dotato, noi lo informiamo delle esperienze positive realizzate dai Comuni che si sono avvalsi di quel determinato Regolamento. Così presentiamo lo schema illustrativo, incitando l’organo politico ad assumersi le responsabilità, coinvolgendo il Sindaco, il Consiglio, la Giunta Comunale nella rispettiva modifica, laddove non sia integralmente condivisibile in alcuni punti. Ma è la politica che deve fare questo passo.
D. L’ANCI sta avendo un ruolo attivo in questo contesto?
R. L’ANCI non è coinvolta in questo progetto. Ma, io credo che, deve avere un fortissimo protagonismo, soprattutto in questa terra che ha bisogno di far mettere insieme i Comuni. Di conseguenza, il passo successivo sarà il suo coinvolgimento, non temendo difficoltà dal punto di vista operativo. Occorre, all’interno dell’ANCI, collaborazione politica da parte dei Comuni, di cui credo che non verrà negata perché è fondamentale. Un’Associazione che mette insieme dei Comuni che ha già nel suo Statuto, non farà mancare il suo contributo.