Dopo i saluti istituzionali del “padrone di casa”, il direttore dell’Orto Botanico, Rosario Schicchi, di Antonio Balsamo, presidente del tribunale di Palermo, di Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e di Gaetana D’Agostino, presidente dell’ordine regionale degli psicologi, sono intervenuti il professore Girolamo Lo Verso, le professoresse dell’Università degli studi di Palermo Cinzia Giordano e Serena Giunta, e la psicologa nonché dirigente del Servizio di neuropsichiatria dell’Asp di Trapani, Graziella Zizzo. A questi si aggiungono l’avvocato nonché componenti del Cga, Nino Caleca, e l’ex magistrato Gioacchino Natoli che, nel corso dell’evento organizzato nel trentennale delle stragi, ha ricordato l’aneddoto che riguardava lui, Falcone e il pentito Tommaso Buscetta.
Questo però è solo uno dei tanti aspetti oggetto della discussione durante il vivace dibattito all’Orto Botanico, dove si sono alternate le psicologhe e psicoterapeute Giordano, Giunta e Zizzo, che hanno analizzato e raccontato – ognuna secondo le proprie competenze e specificità – le ricerche sinora condotte e il lavoro svolto dai gruppi di studio nella prevenzione e nella cura del soggetto la cui storia è legata, per una qualunque ragione, alla mafia. Dopo le professoresse Giordano e Giunta, che hanno presentato dati e risultati raccolti in 28 anni fra studi sociologici, antropologici e psicologici, è intervenuta la dirigente dell’Asp di Trapani che ha ricordato alcune storie che hanno fornito altri spunti per il confronto. Sul maxi schermo anche alcuni scatti della fotoreporter palermitana Letizia Battaglia, come quello che mostrava alcuni bambini – durante gli anni più sanguinosi della mafia – che giocavano con dei gessetti riproducendo per terra delle sagome simili a quelle che venivano tracciate dai poliziotti attorno ai cadaveri dopo un omicidio.
“A volte si presentavano donne con adolescenti – ha riferito la dottoressa Zizzo ricordando alcuni soggetti seguiti nei territori ad alta densità mafiosa – che volevano un sostegno da parte di un terapeuta che potesse salvarli dal loro destino. Ad alcuni poteva servire per sfuggire dal solco della morte o dell’illegalità. Ricordo ragazzi che arrivavano con forme di tossicodipendenza, oppure con gravi disturbi alimentari, con comportamenti autolesivi o che provavano grande vergogna nel sentirsi omosessuali. Omosessualità che invece – racconta – in alcuni casi poteva invece servire come via di fuga dall’identità maschile e più propensa alla violenza nel mondo mafioso, nell’ottica di non doversi sentire obbligato a seguire le orme di un padre legato a Cosa nostra”.
Per la presidente dell’Ordine degli psicologi della Regione Siciliana, Gaetana D’Agostino, l’obiettivo dell’incontro è stato pienamente raggiunto: “Siamo lieti per ciò che è venuto fuori da questa giornata di studio perché si è creata una contaminazione tra professionisti dell’ambito giuridico e psicologico. Speriamo che questo dibattito sia solo il primo di ulteriori confronti che portino a risultati concreti nel contrasto alla cultura mafiosa”.