Sono già passati 30 anni da quel 10 febbraio 1986 in cui si svolse la prima udienza dibattimentale, dinanzi alla 1ma Sezione della Corte d’Assise di Palermo, del c.d. maxiprocesso, presieduto da Alfonso Giordano e istruito da un pool di magistrati, i nomi del quale rimarranno nella storia della Sicilia che lotta contro la mafia, la Sicilia onesta. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, con a capo Antonino Caponnetto. Tanti sono gli imputati: 475. Tanti i giornalisti, cameramen e reporter, anche stranieri, presenti in aula.
Venerdì, 20 maggio alle 9.30, presso l’Auditorium Rai a Palermo si è tenuto l’evento “A 30 anni dal maxiprocesso: una storia ancora attuale”. Organizzato dall’Università degli Studi di Palermo, in sinergia con L’Università degli Studi di Pisa, la Polizia di Stato e Libera. L’incontro ha voluto ricordare quel processo che cambiò le sorti dell’esperienza mafiosa in Sicilia, rivoluzionando gli strumenti e il metodo nel contrasto a Cosa Nostra e a tutte le mafie, ponendo l’attenzione sulle possibili trasformazioni in corso dei sistemi criminali e i relativi rischi per l’assetto democratico del nostro Paese.
Hanno preso parte all’evento gli studenti del Master in Analisi Prevenzione e Contrasto della Criminalità Organizzata e della Corruzione dell’Ateneo di Pisa.
Ricco d’interventi il programma. Hanno introdotto i lavori, Salvatore Cusimano, il Rettore Fabrizio Micari, e Maricetta Di Natale, Direttrice del Dipartimento Culture e Società; sono intervenuti al dibattito, Alessandra Dino, dell’Università di Palermo, Alberto Vannucci, dell’Università di Pisa, il Segretario Generale Siap Palermo, Luigi Lombardo. Inoltre, hanno preso la parola Vincenzo Gervasi, Avvocato già difensore di parte civile al maxiprocesso, Gioacchino Natoli, Presidente della Corte d’Appello di Palermo e, Leonardo Guarnotta, già Presidente del Tribunale di Palermo.
Subito dopo, la proiezione del video-documentario “Nella terra degli infedeli” di Salvatore Cusimano.
Il calendario delle iniziative è poi proseguito nel pomeriggio: gli studenti hanno incontrato il Questore di Palermo, Guido Nicolò Longo, sul tema “Le attività d’indagine e gli strumenti per il contrasto alla criminalità organizzata mafiosa: trasformazioni nel tempo”.
Poi, un altro incontro, sempre con la Polizia di Stato: “Gli agenti dell’Ufficio Scorte: attività, vissuti ed esperienze dagli anni ‘80 ai nostri giorni”.
Il Rettore Fabrizio Micari, durante il suo intervento, ha voluto precisare come il maxiprocesso abbia rappresentato un momento di catarsi per questa città. “Dopo l’avvio del processo, si è cominciato a cambiare registro, a combattere il senso drammatico e devastante di sfiducia che pervadeva la città; c’era una nuova aria, un nuovo respiro, la sensazione di potere ripartire e riappropriarsi dell’orgoglio di essere siciliani e palermitani”.
“Oggi – ha proseguito Micari – grazie al lavoro e al sacrificio di tante persone che si sono impegnate fortemente per questa terra, affrontiamo queste problematiche, certamente ancora vive, con un’ottica diversa; dobbiamo credere nella possibilità, con fiducia, di rinascita di questa città”.
Il Presidente della Corte d’ Appello di Palermo, Gioacchino Natoli ha sottolineato come ufficialmente possa dirsi iniziata la storia di un’azione di contrasto a Cosa Nostra nel 1984 (che poi verrà trasfusa nel c.d. maxiprocesso) perché proprio allora, è apparso sulla scena, il primo collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, precisamente il 16 luglio 1984; a seguire Totuccio Contorno e poi, via via, fino a 92. “Queste rappresentano fonti di conoscenza, autorevolissime (come avrebbero poi attestato decine di sentenze passate in giudicato) che consentono a Falcone e Borsellino di conoscere Cosa Nostra dall’interno.
Ecco la rivoluzione culturale di Giovanni Falcone. Sul metodo di Falcone, occorre precisare come fosse improntato alla rigorosissima ricerca del riscontro, rispetto a qualsiasi elemento pur minimo venisse addotto a supporto dell’ipotesi d’accusa. Cioè un procedimento epistemologico.
Cosa ci insegnava a fare praticamente? Falsificare tutti i singoli elementi provenienti dalla fonte di accusa, al fine di rafforzarli e dimostrarne scientificamente la fondatezza.
Ancora adesso, se proviamo che l’ipotesi ha in sè delle falle, viene esclusa già in partenza; viceversa, se la stessa resiste, viene portata dinanzi il giudice con una prova che è blindata”.
TRINACRIANEWS.EU HA INTERVISTATO SALVATORE CUSIMANO, DIRETTORE DELLA SEDE RAI SICILIA.
D. Perché è importante questo incontro di oggi?
E’ importante che ci sia la possibilità, sopratutto per le nuove generazioni, per il mondo dell’Università, di riflettere sul nostro presente, su cosa è costato in termini di sacrificio umano (basti pensare alle stragi del ’92, ma anche a tutti i delitti che hanno preceduto quella stagione); ebbene queste occasioni di riflessione, servono per comprendere che in questa terra c’è del male, ma c’è anche la possibilità di impegnarsi, per cambiare profondamente la sub-cultura che ha prodotto tutto questo e, che ha prodotto soprattutto il sottosviluppo che in realtà ,noi registriamo; perché poi, la crisi profonda del nostro Paese, della nostra regione, la mancanza di lavoro, sono tutti i frutti di una visione distorta che per molti decenni si è avuta in questa terra.
Penso che, se l’Università riflette e dà strumenti per difendersi da questo male terribile, tutti gli strumenti che si possono mettere in campo vanno valorizzati. La Rai, in tempi lontanissimi è stata da sempre all’avanguardia, ed è ancora all’avanguardia, nella denuncia del fenomeno criminale e delle sue collusioni. Sicuramente, non può che essere in prima fila.
D. Prima di tutto una prospettiva culturale nell’analisi di Cosa Nostra?
Ovviamente la dimensione culturale è fondamentale. Conoscere, serve ad agire. Dopo, ci vogliono gli uomini che continuano ad analizzare e a studiare tutti i fatti con profondità e onestà, anche in maniera critica. Ad esempio, quei fatti che hanno a che fare con i processi, conle elaborazioni chesono state fatte, perché sicuramente ci saranno stati degli errori lì, e bisogna farlo con coraggio, mettersi in discussione con coraggio.
E poi, bisogna dare rilievo agli uomini che devono svolgere l’azione: la polizia, la magistratura. Pensiamo al ruolo importante delle associazioni, al contributo fornito dai giovani nell’ambito della lotta antiracket.
Tutto questo deve andare in rete, deve essere un movimento corale.
Se ognuno si muove in solitudine, il rischio forte sta nel dovere registrare nuovi eroi; e penso che l’auspicio di tutti in questa terra sia di non avere nuovi eroi, che significa martiri, cioè uomini e donne morti per affermare i principi di legalità e convivenza civile.
D. Qualcosa sul documentario di oggi?
“La terra degli infedeli”, rappresenta una ricostruzione molto personale, fatta anche con il contributo di magistrati, poliziotti, altri giornalisti e investigatori, di quello che è stato il percorso che ha portato alla realizzazione del primo maxiprocesso alla mafia, in cui il racconto non si esaurisce nella sentenza storica, ma in qualche modo, tenta di spiegare come quei magistrati che hanno raggiunto un risultato, nella storia della legge italiana senza precedenti, hanno subìto contraccolpi durissimi, che non sono stati solo le stragi e la morte, ma anche l’isolamento; con il risultato prestigioso che hanno ottenuto, probabilmente, nel resto del mondo, sarebbero stati emblema del cambiamento. In questa terra invece, hanno avuto, appunto, l’isolamento della politica, non solo siciliana, ma anche dei magistrati.
D. La politica tutta, non solo siciliana, perché?
Intanto, perché la politica ha letto la sentenza del maxiprocesso e le inchieste della magistratura palermitana, come un attacco diretto alla politica, mentre invece è stato un attacco solo alla politica collusa. Erano completamente due dimensioni diverse. La politica, invece di comprendere il rischio che la mafia determinava, infiltrandosi all’interno della comunità, nelle organizzazioni, nei partiti, anziché sentire questo allarme e denunciarlo, si è sentita aggredita e si è difesa, ha risposto malamente, cominciando a isolare proprio quei magistrati che erano stati l’avanguardia di questa lotta.