Il Senato della Repubblica Italiana ha approvato il testo della riforma del mercato del lavoro. Il provvedimento ritornerà poi alla Camera per l’approvazione verosimilmente con il prossimo calendario di luglio.
In questi mesi abbiamo più volte assistito ad un acceso dibattito tra sindacati, alcuni più o meno favorevoli al progetto di riforma ed altri meno inclini a tale scelta se non decisamente contrari, in special modo la CGIL. Sull’altro fronte gli artefici ed i sostenitori della riforma: il Ministro del Lavoro Fornero sostenuta dal Premier Mario Monti con il beneplacito della ex Presidentessa di Confindustria Emma Marcegaglia. Vero ed unico motivo di scontro tra i contendenti è stato il riassetto, la reimpostazione dei principi fondanti la norma sui licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo.
La normativa base, l’impostazione di legge ante-riforma, già nel codice civile all’art. 2119 (Licenziamento per giusta causa) e poi ancora con la legge 604/66 (Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e soggettivo) descriveva i confini entro i quali colui che impugnava il licenziamento poteva far valer la sua inefficacia davanti al giudice. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 ha completato e circoscritto l’ambito di applicazione prevedendo, in caso di licenziamento illegittimo per le imprese con più di 15 dipendenti, che il giudice, dopo aver accertato la illegittimità del licenziamento applicato, ordinasse il reintegro del lavoratore sul proprio posto di lavoro. Quindi una norma pacificamente accolta, per oltre 40 anni, dalla maggior parte degli attori sociali quale principio di garanzia dei diritti dei lavoratori, viene rivista e corretta con l’obiettivo dichiarato dal Governo di rendere più flessibile il mercato del lavoro («l’Europa ce lo chiede…» ha sempre puntualizzato il Premier Monti). Il testo è così approdato in ultimo al Senato ed ha ottenuto la fiducia a tempi di record (solo 24 ore).
Passando all’analisi del complesso della riforma, è necessario approfondire quanto il legislatore abbia voluto rivedere in materia di licenziamenti cosiddetti “giustificati”, senza tralasciare gli altri temi trattati quali l’introduzione di nuove forme di flessibilità in entrata (Contratti a termine), la rimodulazione di alcune già note forme contrattuali (Lavoro a progetto – Apprendistato – Lavoro accessorio – Tirocini formativi) nonché l’istituzione, per il settore degli ammortizzatori sociali, della Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego), organismo preposto ad indennizzare una vasta platea di lavoratori in occasione della perdita del lavoro per disoccupazione involontaria. Viene introdotta una nuova fattispecie giuridica: i “licenziamenti per motivi economici” (art. 14 comma 7 del DDL Riforma del mercato del lavoro). Il testo di riforma ha previsto, infatti, l’introduzione di tre diversi regimi sanzionatori dei licenziamenti illegittimi, a seconda che il giudice accerti: (a) l’illiceità del licenziamento per motivi discriminatori; (b) l’inesistenza del giustificato motivo soggettivo per i licenziamenti c.d. soggettivi o disciplinari; (c) l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo per i licenziamenti c.d. oggettivi o economici.
Da un’attenta lettura proprio di quest’ultima fattispecie, il licenziamento per motivi economici, emerge quanto segue: l’art. 14 (Tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo) comma 7 del citato DDL chiarisce che il giudice, verificata la manifesta insussistenza dei motivi a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina il reintegro. Il comma 5 del medesimo articolo dispone, invece, che il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria.
Teniamo ben presente il termine “insussistenza dei motivi”. Sembra quasi di essere alla presenza di un ragionamento giuridico un po’ controverso. Quale sarebbe la possibile insussistenza dei motivi?
Il giudice dovrebbe applicare il reintegro del lavoratore (la cosiddetta “tutela reale”) quando a prima vista, cioè senza alcuna prova e con ragionevole fondamento immediatamente evidente, il datore di lavoro sta raccontando al giudice del lavoro una ipotesi falsa di licenziamento, un pretesto insomma, tale da costringere il giudice ad ordinare immediatamente la rinunzia alla pretesa di licenziare con conseguente riassunzione del lavoratore illegittimamente licenziato. Di contro, se il giudice vuole approfondire i famosi motivi di sussistenza delle prove a favore del datore di lavoro – prove tangibili quali sistemi informatici, osservazioni, reportistica o anche testimonianze (magari di colleghi di lavoro nemici) – ammettendo tali prove in giudizio, ma dichiarando l’illegittimità del licenziamento, non ordina il reintegro del lavoratore ma solo l’indennizzo a favore del lavoratore, dichiarando contestualmente l’infondatezza dei motivi cosiddetti economici. Cosa avviene quindi: se il giudice approfondisce i motivi addotti dal datore di lavoro, ordina di indennizzare il lavoratore ma non dispone la reintegrazione nell’originario posto di lavoro, se invece si limita ad un esame sommario dei fatti o delle sole evidenze immediate senza indagine conoscitiva – le famose prove, testimonianze, ecc. – allora il lavoratore verrebbe reintegrato. In altre parole “il lavoratore non viene più licenziato per ragioni economiche ma non ha neanche più il diritto di rientrare in azienda”. Tale interpretazione giuridica, se fondata – e peggio ancora la sua applicazione, se messa in atto – provocherebbero quanto meno una difficile interpretazione da parte dei giudici del lavoro.
Vi immaginate infatti un giudice che si priva della facoltà di indagare sui motivi che stanno alla base del licenziamento? Che giudice sarebbe? Ecco perché l’artifizio giuridico del legislatore tende evidentemente a dare una enorme discrezionalità al giudice nella valutazione del fatto in sè piuttosto che condizionare la sua azione al riferimento primario che è la legge.
Da un lato la discrezionalità, a questo punto ampia, del giudice che deciderà le sorti del lavoratore (reintegro oppure indennizzo), dall’altro la legge, con la nuova riforma all’art. 14 del citato DDL, che lascia irrisolto un dilemma: il giudice deve o non deve indagare se sussistono i motivi? Praticamente: se il giudice accerta i fatti con una indagine approfondita, potrà solo indennizzare il lavoratore, viceversa se svolge una indagine sommaria, potrà decidere l’immediato reintegro dello stesso.
Ci auguriamo che maggiori chiarimenti sui punti appena esposti vengano rilasciati dalle istituzioni preposte, prima che il quadro generale della norma si ammanti di nuove incertezze e facili interpretazioni a scapito dei soggetti più deboli del rapporto di lavoro: i lavoratori.