Il 4 aprile 2013 si è svolta a Palermo presso Palazzo Branciforte la conferenza dal titolo Le missioni internazionali di pace: quale ruolo per l’Italia?, promossa da Fondazione Sicilia e ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). Si tratta della quarta conferenza inserita in un ciclo di 10 convegni su l’Italia e la politica Internazionale, tenuti da diplomatici italiani e docenti dell’Ateneo palermitano. La partecipazione a ciascun convegno, cui consegue il rilascio di un attestato di presenza e il riconoscimento di crediti formativi, è gratuita ed aperta al pubblico.
L’iniziativa, patrocinata dall’Università degli Studi di Palermo, si inserisce nell’ambito dell’istituzione dell’Alta Scuola di Politica Internazionale, già presente in altre città italiane,destinata a studenti delle Facoltà di Giurisprudenza, Scienze Politiche ed Economia.
Alla conferenza sul ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali di pace hanno partecipato: Stefano Stefanini,Consigliere Diplomatico del Presidente della Repubblica; Carla Monteleone, Docente presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Palermo; Francesco Nuccio, giornalista di Ansa Palermo.
Punto cruciale della politica estera e di sicurezza della Nostra Nazione è il contributo che essa offre alla costruzione e al mantenimento della pace in ambito internazionale.
Su questo versante, l’impegno profuso dall’Italia, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, si è progressivamente specializzato, tanto da tributare, a livello internazionale, unanime riconoscimento della competenza dei contingenti italiani, particolarmente abili nell’ adattarsi alla complessità dei contesti civili e militari in cui sono chiamati ad operare.
E’ la comunità internazionale che ce lo chiede, perché sappiamo farlo bene. Con queste parole l’Ambasciatore Stefanini ci parla dell’esistenza di un “approccio italiano” alla cooperazione internazionale, caratterizzato dalla spiccata capacità di dialogo delle nostre forze armate con le popolazioni e le istituzioni locali, elemento che, nell’evoluzione del ruolo, ha premiato il merito dell’Italia con l’attribuzione della leadership in alcune importanti missioni come quella del ’97 in Albania, contribuendo ad affrancarla dall’invalsa posizione di gregario.
In premessa al dibattito, l’Ambasciatore Stefanini, chiarendo che ogni conflitto costituisce una realtà a sé, ha distinto i diversi tipi d’intervento attuabili: il peace keeping, mantenimento di una pace già in atto (per Stefanini, da definirsi, rectius: “missioni di stabilizzazione e sostegno della pace”); e il peace enforcement, imposizione coercitiva della pace, falliti i precedenti tentativi di negoziazione. Rientrano in quest’ultima specie le missioni nelle quali vi sia la necessità di impedire conseguenze umanitarie più gravi, provocate da guerriglia, rivolte o terrorismo (con questa connotazione, ad esempio, le missioni nei Balcani, in Iraq, in Libia, in Afghanistan).
In taluni casi, e, soprattutto, quando si debba avviare un processo di “nation building”, ossia di ricostruzione di una nazione, l’intervento bellico attualizza l’antico “Si vis pacem , para bellum” (lett. “se vuoi la pace, prepara la guerra”, dalla Epitoma militaris di Vegezio), assurgendo a strumento necessario di deterrenza e contenimento dei conflitti .
L’individuazione del fondamento normativo che legittima la linea interventista italiana si rintraccia nel combinato disposto degli Artt. 42 della Carta delle Nazioni Unite ed 11 della Costituzione Italiana.
Il primo prevede che la comunità internazionale possa ricorrere alla forza per mantenere la pace e la sicurezza; il secondo, esclude l’aprioristico confinamento dell’Italia nel torpore dell’ignavia di un pacifismo passivo.
Ed infatti, l’art 11 della Costituzione recita “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali – limitandone in tal modo il ricorso ai soli casi in cui debba difendersi- ma con la stessa proposizione normativa “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
In altre parole, è la stessa Costituzione che impegna il Nostro Paese ad una cooperazione attiva per garantire la pace mondiale, persino attraverso la compressione della propria sovranità nazionale, in favore del riconoscimento di organizzazioni multilaterali finalizzate al predetto scopo. Tra queste, non più solo ONU e NATO, ma anche UNIONE EUROPEA e OSCE.
La fedeltà ai patti di alleanza e l’attenzione verso le istanze umanitarie non costituiscono, però, gli unici motivi per i quali l’Italia si colloca tra i maggiori contributori alla sicurezza internazionale, sia in termini economici che di uomini e mezzi impiegati. “Vi sono anche dei motivi strategici – aggiunge Stefanini – riguardanti la salvaguardia del nostro territorio, in ragione della vicinanza geografica con le aree interessate dai conflitti”. Quest’ultimo elemento consente di reinterpretare gli onerosi costi che ogni anno l’Italia sopporta per il suo impegno (militare e civile) in investimento sulla propria sicurezza. Non meno importante è da considerarsi il ritorno in termini di accresciuto prestigio e credibilità della nazione, visto che “oggi un paese conta per il sostegno che può dare alla stabilità mondiale”.
Tuttavia, considerando la profonda crisi economica attuale e la consistente perdita di militari nostri connazionali caduti sui territori in conflitto, viene spontaneo chiedersi se non si debba seriamente riflettere sulla possibilità di rimodulare l’apporto italiano alle missioni in argomento. Su questo punto, anche il recente rifiuto della Germania di partecipare all’operazione Serval in Mali e a quella in Libia, acclara l’esistenza di margini di discrezionalità sul “se e sul come” uno Stato sia vincolato ad intervenire. Si tratta di scelte rimesse ai venti che spirano all’interno dei singoli governi dei paesi alleati, ad ulteriore conferma che “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”.(cit. Karl Von Clausewitz).
Nel corso della videointervista, TrinacriaNews ha rivolto all’Ambasciatore Stefano Stefanini le seguenti domande:
- Rispetto al passato, come si è evoluta la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali di pace?
- Sappiamo che la pace ha dei costi. L’industria bellica è necessaria in un momento come quello attuale, di profonda crisi per il nostro paese?
- Accanto ai motivi nobili, quelli umanitari, ci sono anche dei motivi strategici?
- La conferenza di oggi si inquadra in un ciclo di conferenze organizzate nell’ambito dell’Alta scuola di Politica Internazionale. Quali consigli vuole rivolgere ai giovani che si accostano allo studio di questa materia?