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Anno XII - Num. 56 - 03 settembre 2024

Anno I - Num. 03 - 28 settembre 2012 Amarcord

Amore tardivo

di Benvenuto Caminiti
         

Roger FedererLo straordinario scenario delle Olimpiadi, che si apre a ventaglio su tutti gli sport, dai più popolari a quelli d’élite, ti mette ogni volta davanti a delle scelte impervie e qualche volta persino impossibili. Tra la scherma, che per consolidata tradizione, regala all’Italia le medaglie più belle, e il tennis, che televisivamente “rende” più di tutti gli altri sport (perfino – forse esagero e forse no – più del calcio); tra volley e basket; tra pallanuoto e pugilato; tra atletica e ciclismo. Insomma, diventa davvero difficile fare la scelta giusta, che può essere determinata da una fase finale del torneo o dalla gara di un atleta italiano, che ti sta molto a cuore. Ma io ho subito scelto, sin dalla prima giornata, i canali 203 e 205 di Sky, quelli del tennis, 24 ore al giorno, tra dirette e repliche. Una vera full immersion, che mi ha “tennisizzato”, fatto innamorare alla follia di questo sport che fino ad ieri consideravo troppo chic, troppo signorile, troppo elegante per i miei gusti, del tutto “proletari”, in generale e ancor più in fatto di pratiche sportive. Uno che segue il calcio da una vita come me, e lo fa soprattutto attraverso il Palermo, che è la sua squadra del cuore, la sua regina intoccabile, il suo mistero inafferrabile e per ciò inviolabile, che può capire della leggiadra eleganza di uno sport raffinato come il tennis? Che ne può capire uno come me, abituato ai tackles roventi come normale scontri di gioco, alle proteste sboccate dei giocatori verso l’arbitro, alla furia belluina dei tifosi che urlano in coro “Devi morire” all’avversario atterrato da un calcione rifilatogli da un “suo” giocatore e, se lo vede rialzarsi dopo la cosiddetta magica spugnata del massaggiatore, gli fa piovere addosso un uragano di fischi e di insulti irripetibili; che ne può capire, dicevo, di uno sport fatto di gesti eleganti, un rovescio come una pennellata di Raffaello e un dritto sibilante come un colpo di frusta: niente o poco più! E invece, partita dopo partita, prima le eliminatorie, poi i turni decisivi, le semifinali e le finali e io ero già suo: di sua maestà Roger Federer, lo svizzero dal viso d’angelo, uno che ha vinto tutto quello che c’è da vincere nel suo sport, tranne che un titolo olimpico. Uno che non si scompone mai, sia che deve andare a colpo sicuro, sia che deve cavar dalla sua magica racchetta il colpo del fuoriclasse, che so, lo smash, l’ace di servizio, il lob di giustezza. Insomma, un vero artista del tennis, nel quale per classe, stile e, soprattutto, risultati, ha dominato per dieci anni almeno, per poi retrocedere prima davanti all’incalzare possente di un giovincello spagnolo, tal Rafael Nadal, poi all’incedere superbo di un serbo dall’aria svagata ma dalla grinta furiosa, Novak Dijokovic. E dal numero 1, che deteneva da due lustri, è retrocesso prima al numero 2, dietro allo spagnolo, poi al 3, dietro anche al serbo. E, nel frattempo, i suoi anni avanzavano e si sa come quest’avanzare nello sport sia famelico, è una marcia spietata che non risparmia nessuno: oltre i trent’anni, l’atleta si avvia al suo inevitabile “Sunset boulevard”, al suo viale del tramonto e risalire, a certi livelli, se non impossibile è un’impresa anche superiore a tutte le altre compiute nel corso della carriera: uno su mille ce la fa, direbbe Gianni Morandi. E invece Roger Federer, che di anni ne ha 31, ce l’ha fatta, è tornato di prepotenza il numero UNO, s’è ripreso il suo trono. Da re, qual è. E quale è rimasto anche dopo l’umiliante sconfitta subita nella finale olimpica da Murray, quello stesso Murray che aveva battuto, appena due mesi prima, nella, finale, altrettanto prestigiosa, di Wimbledon. Allora, Murray era scoppiato in lacrime e Federer lo aveva consolato con regale eleganza, tra sorrisi e pacche sulle spalle; poi, gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio di così carino che lo scozzese, con gli occhi ancora impastatati di pianto, s’era messo a ridere. Perché se lo sport resta tale, ci sta vincere e perdere e in entrambi i casi uscire dal campo a testa alta. Come fece Murray due mesi fa da sconfitto e come ha fatto invece alle Olimpiadi da vincitore. Ed ogni volta, accanto a Federer, un signore sempre, che vinca o perda. Perché così è il tennis, così è Federer: classe, stile, tecnica, lui non esagera mai; nel bene e nel male, ha il suo aplomb, che è un concentrato di calma olimpica, mai un gesto in più, mai una protesta, sempre lì sull’ultima palla, a giocarsela con il suo immenso talento, che finché lo assisterà gli farà vincere ancora tante partite. E se anche ne perderà qualcuna, com’è fatale che accada, perché, anche se è un inarrivabile fuoriclasse, è pur sempre  un essere umano, lo farà con il suo inimitabile stile, il sorriso che lo contraddistingue nella buona e nella cattiva sorte, perché lui vince sempre, anche quando perde, almeno in far play. E se gli sfugge l’unica gemma che gli mancava – l’alloro olimpico – lui anzi che disperarsi, come avrebbe fatto chiunque altro, giunto all’ultima palla, quella che sancisce la sua sconfitta, corre verso la rete e abbraccia l’avversario, un Murray piegato in due dalla fatica immane e dall’incredulità di avere battuto, anzi strabattuto, il più forte di tutti. Murray sembra in trance ed è Federer che, col sorriso migliore che ha, lo riconduce sulla terra, gli rende onore e lo fa con sublime semplicità, come succede solo ai veri campioni.

Nello sport e nella vita.

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