Periodico registrato presso il Tribunale di Palermo al n.6 del 04 aprile 2012

Anno XI - Num. 52 - 24 aprile 2023

Anno II - Num. 08 - 21 ottobre 2013 Cultura e spettacolo

I edizione “FILFest – Festival della Felicità Interna Lorda”

di Michele Patané
         

FilFest ARTICOLO3Catania – Nella scorsa settimana l’intera cittadinanza catanese, dal bacino più giovane alle menti più navigate, ha avuto l’opportunità di vivere un importante momento di formazione, condivisione e informazione sociale con il “FILFest – Festival della Felicità Interna Lorda”, svoltosi al centro culture contemporanee “Zo” in Piazzale Asia a Catania dal 5 al 7 novembre. Rassegna ricca di incontri, lezioni, spettacoli e documentari riguardanti una vastità di temi di carattere economico, ambientale e culturale collocati sullo sfondo della dimensione inamovibile del sociale.

La considerazione delle problematiche che investono la comunità e la valorizzazione delle risorse collettive, esaltate dall’interazione, rientrano nel messaggio lanciato con questo evento, organizzato dal centro culture contemporanee “Zo”, dal circuito di credito commerciale Sicanex e dall’associazione culturale HUB Sicilia.

La ricerca di una soluzione alternativa al progresso, i modelli e i principi ispirati ad Adriano Olivetti, la riflessione sui limiti ad una crescita condivisa hanno caratterizzato per l’intera durata il festival, improntato ad una definizione singolare e ben pensata, quella di “Felicità Interna Lorda”.

TrinacriaNews ne ha parlato, al termine della manifestazione, con il dott. Rosario Sapienza, antropologo, co-fondatore di HUB Sicilia.

Ecco cosa gli abbiamo domandato e come ci ha risposto:

dott. Sapienza, cosa vi ha ispirato nel pensare e lanciare questa iniziativa? Da dove l’utilizzo di un termine visibilmente mutuato dal linguaggio economico, che può intendersi come un’affermazione se non provocatoria comunque coraggiosa a fronte della difficile congiuntura attuale?

Noi abbiamo scoperto che già in Italia erano state intraprese delle iniziative in tal senso, quindi non deteniamo il primato assoluto a livello nazionale anche se comunque in Sicilia sicuramente non era mai stato realizzato qualcosa del genere. Sulla FIL sono uscite riflessioni un po’ laterali e po’ provocatorie rispetto al PIL; sono provocatorie perché non vi è un’indicizzazione chiara di questo concetto, abbastanza recente e che rappresenta il culmine di un percorso di ragionamenti condotti anche dalle Nazioni Unite e sull’insostenibilità degli indicatori economici come unici fattori di misurazione dello sviluppo umano: si stanno creando indicatori standardizzati riguardanti il benessere e nello specifico l’accesso alla salute, l’accesso all’educazione, i diritti umani.

La felicità è una provocazione inderogabile, perché l’accesso non è sufficiente a misurare la temperatura storica del benessere, nella sua accezione più profonda ed esistenziale; la felicità ingloba una serie di componenti che si possono criticare quanto si vuole, ma che attengono aspetti molto meno misurabili, come la relazionalità, l’entusiasmo e la capacità di mettersi in gioco: elementi di una dimensione più individuale, ma che trova espressione nella relazione, con cui il soggetto fa pubblico. Ci occupiamo di questo noi di HUB, centro d’innovazione sociale, che promuove spazi di co-working, come quello tenutosi in questa tre-giorni, che investono nella messa in relazione di individualità che altrimenti lavorerebbero per conto proprio. Crediamo che la relazionalità sia un valore aggiunto, che non si limita a concretizzarsi in profitti a livello economico, ma crea anche una complementarietà tra le diverse competenze e le persone che hanno in comune delle finalità nel cercare di ricoprire un ruolo positivo nella società e nell’ecosistema in generale.

Cos’è e da cosa nasce HUB? Qual è la sua finalità?

HUB è un brand che compare per la prima volta a Londra nel 2005. Adesso indica 60 spazi di condivisione in altrettante città in tutto il mondo, e promuove, come ho accennato pocanzi, un’impresa d’innovazione sociale. Essa si compone di spazi di co-working, che vengono pagati a tempo dalle persone che li frequentano e si dotano di tre caratteristiche fondamentali: la presenza di spazi d’ispirazione, come quello della sede di Catania (il centro culturale “Zo”, ndr) o di Siracusa, un convento del ‘600, che non siano per forza uffici in senso stretto, ma semplicemente strutture dotate di quelle risorse tali da permettere di instaurare relazioni non convenzionali in ambito non solo lavorativo, ma anche riguardante la qualità della vita; una community che li frequenti; le idee, le relazioni non possono avere il tono per contenuti di una chiacchierata da bar o di uno scambio culturale non precisato, ma devono partire dal presupposto di dichiarare e mettere in circolo una propria idea. La combinazione tra questi elementi crea un contesto speciale nel quale noi facciamo una sola cosa, quella che gli inglesi definiscono “art of hosting” e che noi chiamiamo “arte dell’ospitalità”, del resto conosciuta molto bene alle nostre latitudini: la capacità di far sentire privilegiati nella relazione con gli altri, dando tutto ciò che si ha; è questa la disponibilità che “vendiamo”, noi accogliamo con questo spirito chi viene qui, creiamo uno spazio nel quale le persone si incontrano in maniera proficua, non invadiamo la privacy di chi viene qui ma lo costringiamo a vivere questo spazio di co-working, con la finalità di stimolarlo ad aprirsi.

La presentazione dell’evento è stata imperniata sulla figura di Adriano Olivetti: cosa vi ha spinto a sceglierlo? Con ciò sperate di contribuire, nel vostro piccolo, ad una ripresa del suo pensiero e del suo approccio all’attività imprenditoriale in Sicilia?

Personalmente non ho svolto il ruolo di promotore in questo evento, mi sono occupato di altro, la figura di Adriano Olivetti è stata proposta da altri membri del nostro ente, su tutti la prof. Olivella Rizza. Del resto io non faccio l’economista, bensì l’antropologo, e ho avuto modo di conoscere più nel dettaglio Olivetti durante lo svolgimento della rassegna, capendo l’urgenza di guardare a lui come motivo di ispirazione. La concezione di Olivetti del lavoro, della fabbrica, del privato come agente del cambiamento sociale e di un mondo più giusto è uno stimolo assolutamente pertinente con quello che stiamo facendo noi, che crediamo nel mercato e in ogni altra forma di interazione che concorra alla crescita. La differenza tra la solidarietà del fine settimana e dei momenti liberi e l’urgenza di cambiare il mondo, spendendosi con tutto se stesso, è abissale. Nel contesto siciliano che viviamo oggi la classe dirigente, ma anche la borghesia, ha abdicato al suo ruolo pubblico, a vantaggio della costruzione di una rendita di posizione: questo è molto evidente, chi conta a livello economico e imprenditoriale a Catania dimostra chiaramente di non aver voluto condividere la rendita di posizione che ha accumulato con il resto della città. Non ho contezza di una riproduzione attuale di Olivetti a Catania, vedo dei germi di cambiamento, ci sono degli imprenditori che hanno partecipato al nostro evento e hanno mostrato di stare metabolizzando la crisi in termini molto positivi, ma non formano una massa critica sufficiente a smuovere la situazione. Adriano Olivetti rappresenta uno stimolo molto importante, è arrivato ad un inezia dalla conquista di un mercato globale: la sua morte ha impedito un’intuizione che lo avrebbe portato a competere con l’IBM, quindi stiamo parlando di come sarebbe potuta essere l’Italia grazie ad un processo che avrebbe proposto un nuovo modello di governance globale. Purtroppo le cose sono andate diversamente, già negli anni ’70 ci fu un netto cambio di rotta per effetto di situazioni come il sacco di Palermo, il boom della speculazione edilizia in generale o gli “anni di piombo”: eventi che hanno consolidato un modello totalmente distante da quello che aveva preconizzato Olivetti, di cui nessuno ha scelto di raccogliere l’eredità. Nella crisi di oggi dobbiamo reinventarci un modello, chiaramente non possiamo riprendere del tutto quello di Adriano Olivetti, ci troviamo in una situazione naturalmente diversa rispetto al suo contesto, ma se c’è una componente di esso che è importante e va recuperata è l’esigenza di rendere morale la governance: redistribuire non solo le responsabilità, ma anche i poteri, noi di HUB cerchiamo di riprodurre questo elemento, in uno spazio strutturato non da chi lo gestisce ma da tutti coloro che vi interagiscono, mettendo le proprie risorse.

Come valuta la reazione del pubblico a questa prima edizione? Siete soddisfatti dell’andamento? State programmando un futuro del “FILFest” in pianta stabile?

Rispondo a questa domanda considerando anche una seconda accezione di “pubblico”, riferendomi all’amministrazione locale. Partendo dalla fine, siamo abbastanza soddisfatti di quella che è stata una versione “Beta” di un festival che vogliamo rendere più intenso e duraturo nell’avvenire. E’ un evento messo in piedi con due lire, che abbiamo finanziato di tasca nostra, ma chiaramente abbiamo bisogno di maggiori strumenti per renderlo sostenibile e cercheremo di reperirli con interlocuzioni all’esterno: noi vogliamo renderlo un appuntamento annuale. Una cosa che tengo a dire è che non voglio rendere straordinario quanto fatto in questi giorni, in realtà ciò è un condensato dell’attività quotidiana di HUB, aperta dal lunedì al venerdì, al centro culturale “Zo” delle Ciminiere, dalle 9.30 alle 18.30; i contenuti mostrati in questi tre giorni riprendono il lavoro e la filosofia che qui si intravede giornalmente, anche durante il resto dell’anno vengono organizzati incontri ed eventi che evidenziano un approccio all’interattività immanente alla città, e non semplicemente pronto a riemergere ogni anno. In riferimento al pubblico accorso a seguire i nostri lavori, non discuto i numeri, non avevamo neanche fatto calcoli su quanti spettatori dovessimo aspettarci; piuttosto sono soddisfatto della qualità, ovvero della risposta positiva che ho percepito, che accredito anche a loro volta alla buona qualità degli interventi e alla modalità che abbiamo saputo costruire, riducendo drasticamente la sproporzione tra chi veniva a portare dei contenuti e chi veniva ad ascoltare: qualcosa di diverso e innovativo rispetto agli approcci tradizionalmente adottati in convegni o conferenze. Per quanto riguarda l’amministrazione pubblica, immagino che essa abbia appreso che qui siamo in grado di fare delle cose che sono meritevoli di essere prese in considerazione; non ho capito quanto l’amministrazione abbia colto il potenziale di condividere la responsabilità con noi cittadini e con chi vuole avere un ruolo nella governance di questa città. Noi non vogliamo fare politica, ma ci piace fare le cose, pensarle e aiutare chi le fa ad iscriverle in qualcosa che abbia senso a livello di governance locale: in questo senso facciamo un po’ di politica nel nostro piccolo. Non sono sicuro se l’amministrazione con cui abbiamo a che fare in generale abbia capito che il proprio ruolo dovrebbe essere creare condizioni ottimali perché tutte le parti della società possano esprimersi al meglio, senza togliere qualcosa, concedere o regalare; è evidente che chi fa le politiche ritiene di avere anche il potere di realizzarle, quando invece può compierle solo attraverso la partecipazione e la presa di responsabilità di tutte le parti della società: il privato, il terzo settore e i cittadini, non solo in quanto elettori ma anche contribuenti. Noi abbiamo proposto un modello, ma è ancora presto per vedere se questo modello è stato compreso dagli interlocutori istituzionali.

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